Per gli Ermellini, non integra il reato di diffamazione appendere alla finestra il cartello "chi nasce colono non muore padrone". La mancata indicazione del destinatario fa sì che i terzi non possano coglierne il significato

di Annamaria Villafrate - La Cassazione con la sentenza n. 49435/2019 (sotto allegata) chiarisce alcuni concetti molto importanti sul reato di diffamazione. Nel caso di specie, accoglie il ricorso degli imputati, accusati di aver commesso detto illecito penale per aver appeso a una finestra della loro proprietà un cartello contenente la frase "chi nasce colono non muore padrone" proprio di fronte alla casa della persona offesa.

Gli Ermellini però, analizzando la vicenda, chiariscono che affinché si integri il reato di diffamazione è necessario che i termini utilizzati abbiano portata lesiva e che il destinatario delle offese sia identificabile da qualunque soggetto terzo, elementi che nel caso di specie sono del tutto assenti. Ragion per cui gli imputati devono essere assolti.

Reato di diffamazione

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La Corte di Appello conferma la pronuncia del Tribunale di primo grado nei confronti dei due imputati, assolti dal reato di diffamazione

di cui all'art. 595 cod. pen. per la particolare tenuità del fatto a loro attribuito, consistente nell'aver offeso la reputazione di un vicino affiggendo diversi scritti alla finestra della loro abitazione, posta proprio di fronte a quella della persona offesa, contenete espressioni di ingiuria rivolte nei suoi confronti.

Il ricorso in Cassazione

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Ricorrono alla Corte di legittimità gli imputati lamentando i motivi che si vanno a illustrare.

  • Insufficiente e carente motivazione della corte d'appello che, nell'affermare la responsabilità degli imputati in ordine al reato di diffamazione ha considerato provati i fatti senza però indicare le fonti probatorie utilizzate ai fini del decidere. Il giudice dell'impugnazione si è infatti limitato ad affermare l'affissione di scritti diffamatori contenenti riferimenti espliciti alla persona offesa o al suo nucleo familiare, anche se in appello erano già sorti dubbi relativamente al destinatario effettivo delle offese. In ogni caso non sono da ritenersi offensive le frasi presenti negli scritti tra le quali, la più pesante pare essere quella che recita "chi nasce colono non muore padrone", tanto più che a quanto pare non era neppure rivolta a colui che si è sentito destinatario di tali frasi.
  • Erronea applicazione dell'art. 594 c.p visto che la corte avrebbe dovuto dichiarare di non doversi procedere per il reato di ingiuria per intervenuta depenalizzazione.

Non c'è diffamazione se il destinatario non è identificabile

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La Cassazione con sentenza n. 49435/2019 accoglie il ricorso degli imputati. In relazione all'illecito penale d'ingiuria la Suprema Corte dichiara di non doversi procedere perché il fatto, dopo l'intervenuta depenalizzazione, non è previsto dalla legge come reato.

Per quanto riguarda invece il reato di diffamazione la Corte, nel valutare la portata offensiva della frase ritenuta lesiva della reputazione altrui evidenzia come "l'unica vera affermazione indicata come offensiva, perché è da essa che il (...) si sarebbe sentito particolarmente offeso, deve ritenersi la seguente : -chi nasce colono non muore padrone-. Ebbene, ritiene questo Collegio che di là delle implicazioni soggettive di colui che ebbe a recepire come offensiva tale affermazione, essa non abbia un'effettiva portata lesiva dell'altrui reputazione, non potendosi attribuire valenza negativa, dispregiativa, in sé, al termine colono, che si limita ad esprime piuttosto il concetto del lavoro che rappresenta, né di contro valenza positiva al termine 'padrone' che anzi sotto certi aspetti rimanda a fenomenologie non del tutto ortodosse, evocando piuttosto pratiche non sempre legittime derivanti dall'essere e sentirsi 'padrone' (inteso in senso neppure troppo lato come colui che detiene una sorta di potere assoluto sul bene e non solo). Né il concetto che la frase esprime, peraltro, non di immediata ed univoca significanza, reca necessariamente una intrinseca valenza negativa, di offesa."

Il contesto in cui la frase si inserisce inoltre appare altamente complesso, trattandosi di una vicenda strettamente privata che vede per protagonisti solo i soggetti coinvolti e questioni aventi ad oggetto diritti di proprietà ed ereditari "con la conseguenza che sebbene tale frase abbia potuto suscitare una qualche reazione emotiva in chi l'ha reputata indirizzata alla propria persona o alla propria famiglia, essa rispetto ai terzi è rimasta verosimilmente priva di valenza specifica e di un chiaro collegamento con la persona a cui era indirizzata."

L'affissione dello scritto nel caso di specie quindi non integra il reato di diffamazione perché la sua portata diffamatoria è talmente sottile e legata a questioni complesse che nessun soggetto terzo estraneo alla vicenda poteva coglierne a livello sensoriale o intellettivo la portata lesiva o offensiva dell'altrui dignità. Per esserci diffamazione inoltre il soggetto a cui tali frasi sono rivolte deve essere identificabile da parte dei soggetti terzi, collegamento impossibile da fare nel caso concreto, visto che la frase non riporta nella maniera più assoluta il nome del destinatario.

"L'interpretazione giurisprudenziale sul punto è rigorosa, richiedendo che l'individuazione del soggetto passivo del reato di diffamazione, in mancanza di indicazione specifica e nominativa ovvero di riferimenti inequivoci a fatti e circostanze di notoria conoscenza, attribuibili ad un determinato soggetto, deve essere deducibile, in termini di affidabile certezza, dalla stessa prospettazione oggettiva dell'offesa, quale si desume anche dal contesto in cui è inserita (...); con la conseguenza che ove non sia possibile tale deduzione il reato di diffamazione non può ritenersi integrato."

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