Da Strasburgo la pronuncia che condanna la disciplina dell'ergastolo ostativo in Italia, ritenuta lesiva dell'art. 3 CEDU, e che consiglia una riforma della disciplina dell'ergastolo

di Lucia Izzo - A tre anni dall'introduzione del ricorso, giunge la pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo nella procedura "Marcello Viola contro Italia". Nella sentenza resa il 13 giugno 2019 sul ricorso 77633/16 (qui sotto allegata in francese) la CEDU ha bocciato la disciplina italiana sull'ergastolo ostativo, ritenuta lesiva della dignità umana, e ne ha richiesto la modifica.


La vicenda

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La vicenda origina dalla denuncia di Marcello Viola, in prigione dagli anni Novanta in quanto condannato all'ergastolo, con isolamento diurno per 2 anni e 2 mesi, a causa dei commessi reati di associazione mafiosa, omicidio, sequestro di persona (con morte della vittima) e possesso illegale di armi da fuoco.


In mancanza di una sua collaborazione con la giustizia, Viola si era visto sempre negare tutte le richieste presentate per ottenere permessi premio. La Corte di Strasburgo ha ritenuto di esaminare la denuncia solo per quanto riguarda la contestata violazione dell'articolo 3 (divieto di tortura e di trattamenti disumani e degradanti) della Convenzione.


La sentenza della Corte di Strasburgo non è definitiva, ma lo diventerà tra tre mesi in assenza di ricorso alla Grande Camera da parte del Governo (che tuttavia appare un'evenienza assai probabile). Il provvedimento, pur non avendo l'effetto di comportare la scarcerazione del Viola, obbligherà lo Stato italiano a corrispondergli 6mila euro di spese legali.

CEDU: l'ergastolo ostativo è un trattamento inumano

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Secondo la Corte EDU, il c.d. ergastolo ostativo, ovvero la pena della reclusione a vita (anche detta "fine pena mai"), rappresenta un trattamento inumano in quanto le norme in argomento (artt. 4-bis e 58-ter ord. pen.) negano al detenuto che non collabora con la giustizia l'accesso a una serie di benefici penitenziari e misure alternative alla detenzione concesse ad altri detenuti, tra cui figurano i permessi premio, la semilibertà, la libertà condizionale e il lavoro esterno al carcere. Ciò a meno che la predetta collaborazione non sia impossibile o inesigibile.

La legge italiana, in effetti, consente a chi viene condannato all'ergastolo di accedere ad alcuni dei suddetti benefici, ma ciò non avviene in caso di ergastolo ostativo, pena che viene inflitta a soggetti particolarmente pericolosi e che si sono macchiati di delitti particolarmente gravi.

La violazione della Convenzione Europea sui Diritti dell'Uomo, secondo i giudici di Strasburgo, si realizza proprio in presenza di questo differente trattamento riservato ai condannati al carcere a vita che non collaborano con la giustizia, attraverso la negazione dell'accesso a una serie di benefici.

Ergastolo e uso distorto della "collaborazione"

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La Corte Europea ha posto sotto la lente l'uso distorto del tema della collaborazione. I giudici si dicono consapevoli della possibilità, offerta dalla legge italiana ai detenuti, di scegliere di collaborare con le autorità, ciononostante manifestano dubbi in ordine alla natura libera di tale scelta e ritengono sbagliato equiparare una mancanza di cooperazione a una presunzione irrefutabile di pericolosità del prigioniero nella società

Da un lato, infatti, non è detto che la collaborazione del ricorrente (nel caso non impossibile o inesigibile) comportasse l'interruzione di ogni rapporto con le organizzazioni criminali e un azzeramento del pericolo per la società. Nel caso in esame, Viola aveva deciso di non collaborare con le autorità per paura di mettere in pericolo la vita propria e quella dei propri familiari.

Ancora, la scelta di non collaborare non riflette necessariamente la continua adesione ai valori criminali o un collegamento ancora in corso con l'organizzazione criminale, così come non può presumersi che ogni collaborazione con la giustizia implichi un vero pentimento e sia accompagnata dalla decisione di tagliare ogni legame con le associazioni per delinquere.

In sostanza, la Corte ritiene che l'assenza di collaborazione non possa automaticamente comportare il permanere della pericolosità sociale. Secondo la Corte EDU, oltre alla cooperazione con le autorità, ben possono essere utilizzati altri indicatori per mostrare il ravvedimento del detenuto e i suoi progressi nello scindere ogni legame con il mondo della criminalità.

Reinserimento e rieducazione del condannato

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Pur non negando affatto la gravità dei reati commessi da Viola, la Corte contesta il fatto che all'uomo, solo per non aver collaborato con la giustizia, sia negato l'accesso alle opportunità offerte dal sistema italiano per facilitare la rieducazione e il reinserimento in società del detenuto, nonostante molti rapporti indicassero la sua buona condotta e un cambiamento positivo della sua personalità.

Nella visione della Corte di Strasburgo, la personalità di un detenuto non rimane invariata nel tempo e ben è possibile una sua evoluzione nel corso della detenzione, come rifletto del percorso di risocializzazione. Ed è questo che ha portato molti delinquenti a rivedere criticamente il proprio passato criminale, ricostruendo la propria personalità, ma per farlo era necessario per loro sapere cosa fare per essere rilasciati.

La sentenza evidenzia come privare un condannato di ogni possibilità di riabilitazione, dunque della speranza di poter un giorno uscire dal carcere, appare lesivo del principio base su cui si fonda la convenzione europea dei diritti umani, ovvero il rispetto della dignità umana.

Difatti, la mancata collaborazione con le autorità giudiziarie, nel caso di specie, ha dato luogo a una presunzione irreprensibile di pericolosità che ha privato il Viola di qualsiasi prospettiva realistica di liberazione. Anziché continuare a valutare la pericolosità della persona con riferimento al momento in cui il reato è stato commesso, si sarebbe dovuto prendere in considerazione il processo di reintegrazione e ogni progresso compiuto dalla persona dopo la condanna.

La riforma del regime dell'ergastolo

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I giudici ritengono dunque incompatibile con il rispetto della dignità umana privare le persone della loro libertà senza prevedere una loro riabilitazione e fornire loro la possibilità di riconquistare quella libertà in futuro. In sostanza, avendo l'ergastolo imposto al Viola limitato le sue prospettive di rilascio e la possibilità di revisione della sua sentenza in misura eccessiva, non si ritengono soddisfatti i requisiti posti dall'art. 3 CEDU.

Tale considerazione non si traduce, tuttavia, nel senso di offrire al richiedente un'immediata scarcerazione posto che gli Stati godono di un ampio margine di apprezzamento nel decidere la lunghezza appropriata delle pene detentive e per questo l'Italia viene condannata al solo pagamento delle spese.

Tuttavia, la CEDU sottolinea come la situazione in esame mostri un problema strutturale nel nostro paese, in quanto un certo numero di domande analoghe risultano pendenti innanzi alla Corte e in futuro potrebbero arrivarne di nuove.

Pertanto, ai sensi dell'articolo 46 della Convenzione, si consiglia allo Stato italiano di adottare, preferibilmente per iniziativa legislativa, una riforma del regime dell'ergastolo che garantisca la possibilità di una revisione della pena, che consenta alle autorità di determinare se, durante l'esecuzione della pena stessa, il detenuto si sia evoluto e abbia progredito sulla via dell'emendamento e che nessun motivo d'ordine penologico giustifichi il mantenerlo in detenzione e, infine, che il condannato abbia il diritto di sapere cosa deve fare affinché gli sia garantita la liberazione e quali le condizioni applicabili.

Pur ammettendo che lo Stato possa pretendere la dimostrazione della "dissociazione" dall'ambiente mafioso, la Corte ritiene che tale rottura possa essere dimostrata in modo diverso dalla collaborazione con la giustizia e con l'automatismo legislativo attualmente in vigore.

Scarica pdf CEDU, Marcello Viola c. Italia

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