L'inserimento, per errore, nella centrale rischi non determina alcun diritto al risarcimento del danno per l'avvocato, se non provato

di Daniela Ferro - Niente danni per la segnalazione errata dell'avvocato alla centrale rischi. E' quanto ha disposto la Cassazione con l'ordinanza n. 19137/2018 (sotto allegata).

La vicenda

La vicenda all'attenzione della Corte riguarda il caso di un Avvocato segnalato, per sbaglio, alla centrale rischi per due anni. Il ricorrente era venuto a conoscenza dell'apertura a suo carico di una procedura di recupero credito relativa ad un finanziamento da lui mai effettuato. Per questa procedura il suo nominativo era stato inserito nella centrale rischi

. Di conseguenza egli aveva rappresentato la sua estraneità alla vicenda all'istituto di credito ed alla banca, e l'istituto di credito lo aveva riscontrato positivamente con una nota scritta. Questo scambio era stato poi comunicato alla centrale rischi cui il ricorrente aveva intimato di cancellare tempestivamente il suo nominativo. Successivamente lo stesso aveva provato a richiedere un finanziamento ad una finanziaria e la richiesta gli era stata rigettata poiché, nella fase di istruzione della pratica, era emerso un credit scoring negativo, ossia una valutazione negativa del soggetto finanziabile dovuta all'inserimento nella centrale rischi.

A questo punto, con ricorso ex art 700 c.p.c., il ricorrente aveva chiesto al Giudice del Tribunale di Catanzaro di ordinare l'immediata cancellazione del suo nome dalla centrale rischi ed aveva ottenuto il richiesto provvedimento a carico della banca e dell'istituto di credito, con la relativa condanna alle spese. Con la notifica del provvedimento cautelare, la banca aveva comunicato al ricorrente di aver provveduto alla suddetta cancellazione e, successivamente a questa comunicazione, veniva instaurato il giudizio per il risarcimento dei danni proprio nei confronti della banca.

Nel costituirsi la banca asseriva di essersi attivata per favorire la cancellazione dalla centrale rischi

e che, originariamente, aveva provveduto alla segnalazione perché, presso un esercizio commerciale convenzionato, era stata avanzata una richiesta di finanziamento da un soggetto che aveva fornito documenti e generalità solo successivamente rivelatesi false ed appartenenti invece al ricorrente. A tale soggetto, era stato dunque concesso un finanziamento, ma le rate non erano state poi saldate. La banca, quindi, nel giudizio asseriva di essersi comportata correttamente nel segnalare il nominativo alla centrale e che alcun addebito poteva esserle mosso.

Il giudizio di merito e il ricorso in Cassazione

Il giudizio di primo grado si concludeva con una sentenza di condanna al risarcimento dei danni nei confronti della banca che però veniva ribaltata in secondo grado, dalla Corte di appello di Catanzaro. Il ricorrente proponeva ricorso per Cassazione, fondato su tre motivi, mentre la banca, alla quale era subentrato, per vicende societarie, un altro istituto, depositava un contro ricorso basato su un solo motivo. La Corte di Cassazione, con la sentenza in oggetto, la n. 19137 del 19 luglio 2018, si è pronunciata in primo luogo sulla presunta "violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2050, 2059, 2697 e 2729 c.c. e 15 D.Lgs. n. 196/2003".

A questo riguardo, infatti, il ricorrente aveva asserito che la condotta della banca era da considerarsi profondamente negligente, in modo incontroverso e non discutibile, poiché non aveva adottato tutte le dovute cautele e non aveva provveduto alle adeguate verifiche nella segnalazione del nominativo alla centrale rischi. Inoltre la condotta della banca era biasimevole per non aver poi provveduto tempestivamente a curare la cancellazione del nominativo che era rimasto presente nella centrale ben dopo il provvedimento cautelare per complessivi due anni.

Questa condotta, già dannosa in sé, doveva essere valutata, secondo il ricorrente, anche come ulteriore fonte di danno caratterizzato dal non aver potuto, quando ne aveva davvero fatto richiesta, accedere ad un finanziamento. Il ricorrente, inoltre, su questo punto, aveva ritenuto che la Corte d'Appello si fosse pronunciata erroneamente perché, pur avendo ritenuto esistenti gli elementi caratterizzanti l'illecito, aveva preferito incentrarsi su una presunta carenza di riscontri probatori forniti dal ricorrente stesso in ottemperanza al disposto di cui all'articolo 2043 c.c.

Il ricorrente, invece, asseriva che il danno subito sarebbe da considerarsi in re ipsa e dimostrabile mediante presunzioni, che consistono, per il danneggiato, nella sola allegazione degli elementi idonei alla qualificazione. In sostanza il ricorrente aveva asserito di aver assolto il proprio onere probatorio. Egli inoltre aveva sostenuto di aver subito un danno all'immagine professionale e personale.

Questa seconda allegazione si fondava sulla Carta dei principi fondamentali dell'Avvocato Europeo del 25 novembre 2006 unitamente alla lettura della disciplina presente nel codice deontologico. Questa disciplina asserisce che l'Avvocato ha il dovere di comportarsi in modo tale da non compromettere la fiducia che i terzi debbono avere nella sua capacità di adempiere i doveri professionali e la dignità della professione anche nei rapporti inter personali e fuori dall'attività lavorativa, tanto che in mancanza è soggetto a procedimento disciplinare (come asseriscono gli articoli 2 e 56 codice deontologia forense). Per il ricorrente, dunque, alla luce di queste argomentazioni, il danno che avrebbe subito nella fattispecie in esame sarebbe da considerarsi tutt'altro che futile. Ne secondo motivo, il ricorrente lamentava la falsa applicazione dell'art. 1226 c.c., poiché nel caso di specie, dopo che era stata accertata una condotta dannosa ex art. 2059 c.c., era possibile quantificare il danno in via equitativa.

Niente risarcimento all'avvocato segnalato per sbaglio

In ragione di queste asserzioni la Cassazione ha deciso di pronunciarsi su questi due primi motivi congiuntamente, rigettandoli e confermando, sul punto, un orientamento ormai consolidato (Cass. n.7471/12, n.21865/13), secondo cui il danno non patrimoniale, anche laddove afferisca la lesione di diritti inviolabili, non possa mai ritenersi in re ipsa, ma necessiti sempre di una allegazione probatoria adeguata da parte di chi lo invochi. A questo riguardo appare opportuno ribadire come, per Giurisprudenza consolidata di merito e di legittimità, le presunzioni semplici possono costituire una prova completa cui il Giudice, ai fini della formazione del proprio convincimento, può attribuire una rilevanza anche in via esclusiva. Questo in ragione del fatto che al Giudice di merito è attribuito un potere discrezionale di scegliere gli elementi che considera più idonei a dimostrare i fatti costitutivi della domanda o dell'eccezione, tra tutti quelli che le parti forniscono.

Secondo la Corte, dunque, è necessario fornire prove dirette o indizi gravi, precisi e concordanti affinché si possa riconoscere un pregiudizio risarcibile e che sia derivante dalla lesione di un diritto costituzionalmente protetto e che, nel caso di specie, si erano sostanziati solo in elementi indiziari, generici e non convergenti.
In conclusione, la Corte, con la sentenza in esame, ha confermato un orientamento consolidato, secondo il quale i danni non patrimoniali, anche nel caso di lesione di diritti inviolabili, devono essere debitamente allegati e provati da chi li invoca.

Cassazione ordinanza n. 19137/2018

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