Forse frettolosamente dall'intervento del Pg alle Sezioni Unite è stata tratta la conclusione che per l'assegno divorzile si restaurerà il riferimento al tenore di vita. Ecco una lettura di "diritto mite" che potrebbe conciliare i due approcci

di Marino Maglietta - Le premesse sono note. La sentenza 11504/2017 ha inteso distinguere in due fasi la decisione riguardo alle richieste di un assegno divorzile: prima si valuta se il richiedente disponga per suo conto di mezzi che gli assicurino una vita dignitosa, o sia in grado di procurarseli (momento dell'an).

Solo se la risposta è negativa si passa alla seconda fase (del quantum) in cui si determina l'entità di tale contributo. Riprendendo, doverosamente, la formulazione delle norme in vigore, si legge che "il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l'obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell'altro un assegno quando quest'ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive." (art. 5, comma 6, L. 898/1970).

Quindi le due fasi sono effettivamente previste, mentre del tenore di vita la legge non parla al comma 6, dedicato alla solidarietà post-coniugale. Lo fa, invece, al comma 9, dedicato agli accertamenti, ai controlli, introducendolo solo in caso di contestazioni, ad es., evidentemente, quando può servire per ricostruire indirettamente l'esistenza di risorse occultate; non a caso accompagnandolo dall'aggettivo effettivo: "I coniugi devono presentare all'udienza di comparizione avanti al presidente del tribunale la dichiarazione personale dei redditi e ogni documentazione relativa ai loro redditi e al loro patrimonio personale e comune. In caso di contestazioni il tribunale dispone indagini sui redditi, sui patrimoni e sull'effettivo tenore di vita, valendosi, se del caso, anche della polizia tributaria".

Perché il legislatore al comma 6 sceglie di non nominarlo?

Vorrà dire qualcosa, ubi voluit, dixit.

Conviene, d'altra parte, giustapporre i contenuti sul punto della 11504/17 e le sottolineature del PG. Quest'ultimo ha affermato: «La premessa è che ogni singolo giudizio richiede necessariamente la valutazione delle peculiarità del caso concreto, perché l'adozione di un unico principio di giudizio, come quello stabilito dalla sentenza "Grilli", corre il rischio di favorire una sorta di giustizia di classe». Ma è proprio vero che la Sezione I ignora le specificità? In realtà, in tutti quei casi in cui viene superato il vaglio dell'an e si passa alla quantificazione si ritrova in sostanza la considerazione di tutti quei parametri dei quali il Procuratore invocava la conservazione: "nella fase del quantum debeatur è legittimo procedere ad un "giudizio comparativo" tra le rispettive "posizioni" (lato sensu intese) personali ed economico-patrimoniali degli ex coniugi, secondo gli specifici criteri dettati dall'art. 5, comma 6, della legge n. 898 del 1970 per tale fase del giudizio."

Allora qual è il problema?

Concretamente, la differenza consiste nella soglia di inadeguatezza che viene considerata per poter avere diritto a un assegno divorzile. Nel vecchio sistema si doveva poter mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio: quindi il diritto poteva maturare anche in condizioni di estremo benessere autoprocurato; come nel caso che ha portato alle Sezioni Unite. Nel 2017, invece, si è affermato che: "... i principali "indici" - salvo ovviamente altri elementi, che potranno eventualmente rilevare nelle singole fattispecie - per accertare, nella fase di giudizio sull'an debeatur, la sussistenza, o no, dell'"indipendenza economica" dell'ex coniuge richiedente l'assegno di divorzio - e, quindi, l'"adeguatezza", o no, dei «mezzi», nonché la possibilità, o no «per ragioni oggettive», dello stesso di procurarseli - possono essere così individuati:

1) il possesso di redditi di qualsiasi specie;

2) il possesso di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari, tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu "imposti" e del costo della vita nel luogo di residenza ... della persona che richiede l'assegno;

3) le capacità e le possibilità effettive di lavoro personale, in relazione alla salute, all'età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo;

4) la stabile disponibilità di una casa di abitazione".

Requisiti, si faccia attenzione, che devono sussistere tutti contemporaneamente; non ne basta uno solo, o alcuni.

Assegno divorzio: due possibili approcci

Riassumendo, mentre la divisione della decisione in due tappe appare ineccepibile sotto il profilo logico-giuridico; mentre, al contempo, la separazione dei bilanci degli ex coniugi appare più aderente ai tempi e ispirata a un sano principio di autoresponsabilità; mentre, infine, appare comunque rispettato il principio di solidarietà costituzionalmente tutelato; la determinazione del quantum appare nella 11504/2017 non ben definita e rimessa a rischiose e opinabili valutazioni. Tanto che una delle prime applicazioni, presso il Tribunale di Milano, aveva scelto come parametro di riferimento il reddito massimo per accedere al patrocinio a spese dello stato. Suscitando comprensibili risentimenti, visto che si cade sull'ordine di 1000.00 € al mese, ovvero si è vicini alla soglia di povertà.

Probabilmente, dunque, ciò che potrebbe saldare i due approcci, se migliorato, è una maggiore personalizzazione del contributo, nella consapevolezza che i "bisogni" di una persona - anche limitandosi a quelli essenziali - sono comunque in buona misura soggettivi, in quanto funzione anche della sua formazione, della sua storia e del suo vissuto.

E a questo punto della riflessione giova rileggere quanto ulteriormente affermato dal Procuratore, Dr. Matera: «Si può anche convenire sul fatto che il criterio dell'autosufficienza può essere preso come parametro di riferimento, ma non si può escludere di rapportarsi anche agli altri criteri stabiliti dalla legge, quali la durata del matrimonio, l'apporto del coniuge al patrimonio familiare, il tenore di vita durante il matrimonio». Una apertura del PG al criterio del Collegio per quanto riguarda l'an, che sembra suggerire una soluzione politica, di compromesso, (ovviamente tecnicamente imperfetta), che potrebbe consistere nel concordare che il precedente standard di vita sia sì considerato nei provvedimenti, ma solo nella fase due, quando si passa a determinare il quantum. In attesa di una riscrittura della norma in questo senso, decisamente auspicabile. Questo, oltre tutto, risolverebbe anche il problema di non contraddire totalmente e troppo rapidamente i giudizi omogenei di altro segno espressi nell'arco dell'intero ultimo anno: con evidente sconcerto delle parti e perdita di credibilità per la stessa Corte.

In concreto, ciò vorrebbe dire che la donna (per rimanere all'interno degli schemi pseudo-sociologici che pervadono ogni attuale analisi) che nel matrimonio abbia conservato la propria attività e le proprie risorse, e pertanto goda già di autosufficienza economica, rimarrà nello status che si è costruita e che personalmente le appartiene; per quella, invece, che si sia affidata completamente al rapporto di coppia, investendo tutta se stessa nei compiti di moglie e madre, e si trovi, pertanto, in età avanzata dipendente economicamente dal partner (ovvero abbia superato il filtro dell'an) verrà utilizzato come riferimento il parametro del tenore di vita. Il che corrisponderà, in genere, anche alle situazioni di maggiore squilibrio, perché è proprio quando le risorse di uno dei due sono decisamente elevate che si può decidere che l'altro non svolga attività produttive.

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