La Cassazione conferma la condanna al marito per i maltrattamenti subiti dalla moglie da lui accusata di dedicarsi troppo al lavoro

di Lucia Izzo - Rischia la condanna per maltrattamenti in famiglia il marito che agisce con rabbia, vessando psicologicamente la moglie, donna in carriera, proprio a causa del suo lavoro ritenuto non conciliabile con la vita di coppia e i rapporti familiari.

La vicenda

Nel caso di specie, la Corte di Cassazione, VI sezione penale, ha confermato, nella sentenza n. 49997/2017 (qui sotto allegata), la condanna nei confronti di un uomo per il reato ex art. 572 c.p. (Maltrattamenti conto familiari o conviventi).


All'imputato era stato contestato di aver maltrattato la moglie, rendendole la vita impossibile, con ripetute percosse, minacce di morte e condotte di intimidazione psicologica e vessazione, atteggiamenti di umiliazione e svilimento, quali volerle impedire di svolgere attività lavorativa.


La difesa, sottolinea, invero, che in 11 anni di convivenza gli episodi sarebbero stati pochi (quindi sarebbe mancato il requisito dell'abitualità) e per lo più soltanto litigi e diverbi tra coniugi slegati tra loro, come confermato da testimonianze che li definivano come "una coppia normale".


Il marito sottolinea, inoltre, l'errata concezione della famiglia tutelata dalla norma penale, sussunta dalla Corte territoriale e avulsa dalla realtà: egli evidenzia che la moglie/persona offesa aveva scelto di anteporre la carriera alla famiglia, vivendo "da single" e senza legami, dedicandosi al lavoro, senza alcun obbligo nei confronti degli altri componenti del nucleo familiare e nei confronti del marito invalido.


In Cassazione, pertanto, l'imputato chiede venga annullata la sentenza impugnata, sia per mancanza del menzionato elemento oggettivo del reato, sia per difetto di quello soggettivo, in assenza della prova di un programma criminoso animato da volontà unitaria di vessare la moglie.


Ancora, il provvedimento viene censurato dall'imputato poiché fondato sulle sole dichiarazioni della persona offesa, prive di riscontri esterni ed estremamente ondivaghe e generiche, quanto all'oggetto delle condotte illecite.

Condannato il marito violento nei confronti della moglie in carriera

Per gli Ermellini, tuttavia, il duplice conforme specifico apprezzamento dei giudici di merito, appare sorretto da motivazione non apparente e immune dai vizi: l'imputato, infatti, si sarebbe limitato a reiterare questioni già dedotte e risolte in sede di appello, sollecitando una diversa valutazione del quadro probatorio, del tutto preclusa in sede di legittimità.


La Corte di appello, sottolinea la Cassazione, ha puntualmente e correttamente proceduto alla verifica della attendibilità intrinseca ed estrinseca delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato, previa (penetrante) verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto.


Nel caso di specie, sono state evidenziate condotte abituali addebitate al ricorrente ovvero aggressioni che prima riguardavano solo oggetti, poi degenerate successivamente in minacce anche di morte, in percosse, in reazioni d'ira del ricorrente, in ritorsioni, nella violenza sugli oggetti, in pugni, in tirate di capelli.


Tutto ciò in occasione di continue discussioni dovute all'ira del marito in particolare per gli impegni lavorativi della moglie, poiché lo stesso viveva problematicamente le modalità con cui la donna svolgeva il suo lavoro, con impegni che non sarebbero stati conciliabili, a suo avviso, con i rapporti familiari, tanto da stilare su una lavagna i giorni in cui avrebbero potuto pranzare assieme, con conseguente sue reazioni in caso in cui venissero disattesi gli accordi.


La sentenza ha dato atto di come la donna fosse stata costretta a rifugiarsi da parenti e vicini per sottrarsi al ricorrente, tanto poi da prendere in affitto un appartamento temendo di essere aggredita nel sonno.


La stessa Corte territoriale, inoltre, ha ragionevolmente evidenziato sul punto come le condotte maltrattanti fossero avvenute tra le mura domestiche, quindi in assenza di diretti testimoni, e come chi le subisca tenti di conservare il rapporto familiare cercando di gestire la situazione, anche per paura di comprometterlo con denunce o temendo ritorsioni, confidandosi piuttosto con vicini o parenti dai quale ricevere aiuto in situazioni di emergenza.


Totalmente inammissibile anche il motivo in cui l'imputato prospetta una visione della vita familiare che avrebbe dovuto giustificare i comportamenti da lui posti in essere: nel reato di maltrattamenti ex art. 572 c.p., spiega la Cassazione, l'oggetto giuridico non è costituito solo dall'interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessatori e violenti, ma anche dalla difesa dell'incolumità fisica e psichica delle persone indicate nella norma, interessate al rispetto della loro personalità nello svolgimento di un rapporto fondato su vincoli familiari.


Infine, conclude la Cassazione, nel reato abituale, il dolo non richiede (a differenza di quello continuato) la sussistenza di uno specifico programma criminoso; è invece sufficiente la consapevolezza dell'autore del reato di persistere in un'attività delittuosa, già posta in essere in precedenza, idonea a ledere l'interesse tutelato dalla norma incriminatrice.

Cass.,VI penale, sent. 49997/2017

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