La Cassazione, ricorda anche che per l'interruzione non è sufficiente neppure un atto che evidenzi la consapevolezza del possessore circa la spettanza ad altri del diritto da lui esercitato come proprio

di Marina Crisafi - Diffide e messa in mora, così come la vendita della proprietà non sono sufficienti ad interrompere l'usucapione i cui termini continuano a decorrere per il possessore. Lo ha ricordato la Cassazione con ordinanza n. 20611/2017 (qui sotto allegata), pronunciandosi su una vicenda riguardante un uomo che si era impossessato di alcuni terreni sin dagli anni '70 esercitando un possesso ultraventennale in buona fede, uti dominus, palese e pacifico. Come si legge nell'ordinanza della Corte se a fronte del "dominio pieno ed esclusivo esercitato [...] per oltre 20 anni, i proprietari sono rimasti inerti, tale inerzia non può "ritenersi giuridicamente interrotta per mezzo delle due missive" giacché "possono avere efficacia interruttiva solo atti che comportino per il possessore la perdita materiale del potere di fatto sulla cosa".

La vicenda

I legittimi proprietari però inviavano all'uomo delle missive diversi anni dopo (nel 1985) e vendevano anche i terreni oggetto di causa e il tribunale condannava l'uomo all'immediato rilascio degli stessi. In appello però la corte riteneva dimostrato il possesso utile ad usucapire sia dalle missive intercorse tra le parti sia dalle prove testimoniali assunte in corso di causa. La vicenda perciò approdava in Cassazione.

Ma per gli Ermellini il giudice di merito ha agito correttamente.

Diffida e messa in mora non interrompono l'usucapione

Nel ricorso per Cassazione i ricorrenti avevano sostenuto che pur essendovi un orientamento pacifico in giurisprudenza secondo cui l'efficacia interruttiva può essere riconosciuta solamente agli atti che "comportino per il possessore la perdita materiale del potere di fatto sulla cosa", nella fattispecie, "il tenore letterale degli scritti dovrebbe provare che" la parte "aveva riconosciuto di avere la mera detenzione del bene".

Una tesi che non ha fatto breccia nei giudici del Palazzaccio i quali hanno innanzitutto rimarcato che "gli atti di diffida e di messa in mora, come, nella specie, la richiesta per iscritto di rilascio dell'immobile occupato, sono idonei ad interrompere la prescrizione dei diritti di obbligazione ma non anche il termine per usucapire, potendosi esercitare il possesso anche in aperto e dichiarato contrasto con la volontà del titolare del diritto reale".

Inoltre, ai fini della configurabilità del riconoscimento del diritto del proprietario da parte del possessore, idoneo ad interrompere il termine utile per il verificarsi dell'usucapione, ai sensi degli artt. 1165 e 2944 c.c., "non è sufficiente un mero atto o fatto che evidenzi la consapevolezza del possessore circa la spettanza ad altri del diritto da lui esercitato come proprio, ma si richiede che il possessore per il modo in cui questa conoscenza è rivelata o per i fatti in cui essa è implicita, esprima la volontà non equivoca di attribuire il diritto reale al suo titolare".

Né, tantomeno, può essere utile alla tesi dei ricorrenti, la vendita del bene a terzi, come avvenuto nella fattispecie: "l'atto di disposizione del diritto dominicale da parte del proprietario in favore di terzi - si legge infatti in sentenza - anche se conosciuto dal possessore, non esercita alcuna incidenza sulla situazione di fatto utile ai fini dell'usucapione, rappresentando, rispetto al possessore, "res inter alios acta" ininfluente sulla prosecuzione dell'esercizio della signoria di fatto sul bene, non impedito materialmente, né contestato in modo idoneo". 

Per cui, ricorso rigettato e proprietari condannati anche a pagare le spese di giudizio oltre al doppio del contributo unificato.

Cassazione, sentenza n. 20611/2017

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