Nota di commento alla sentenza del Tar Trieste n. 325/2016

Avv. Francesco Pandolfi - Un Ispettore Capo della Polizia di Stato sostiene che il Ministero dell'Interno lo ha vessato in un contesto di episodi conflittuali nell'ambito di un nuovo posto di lavoro, occupato a seguito di trasferimento (dal settore di polizia di frontiera al settore di polizia ferroviaria).


I contrasti, secondo la sua ricostruzione, nascono da conflitti con l'ispettore capo comandante.


Fa degli esempi: alcuni suoi incarichi vengono affidati al suo subordinato, varie contestazioni gli vengono fatte alla presenza di altre persone, non ha un suo cassetto personale, non ha una sua postazione, viene scavalcato dall'emanazione di ordini di servizio ed è costretto a svolgere mansioni inferiori.


In buona sostanza, vive questa esperienza lavorativa "ai margini", con notevole sofferenza.


Ben presto il clima all'interno del posto di polizia diventa intollerabile e si compromettono i rapporti: il ricorrente, all'aggravarsi del suo quadro clinico (insonnia e altre patologie), viene collocato prima in aspettativa e poi in quiescenza.


Il comportamento vessatorio sfocia in una querela, poi tolta per effetto di scuse.


La prova del mobbing

Il ricorrente, già dipendente della Polizia di Stato, in quiescenza, propone la causa per il risarcimento del danno nascente dalla persecuzione tenuta dall'amministrazione nei suoi confronti.


In primo luogo, la giurisdizione in questa materia è del Tar in quanto il comportamento qualificabile come mobbing nei confronti di un militare viene collegato a specifici fatti giuridici.


In secondo luogo, l'osservazione doverosa è che nell'ambito del rapporto di pubblico impiego il mobbing si sostanzia in una condotta del datore o superiore gerarchico continuata e protratta nel tempo con comportamenti intenzionalmente ostili, ripetuti, sistematici, esorbitanti, incongrui rispetto ad una gestione ordinaria del rapporto.

Comportamenti che esprimono un disegno di persecuzione e vessazione del dipendente, di intensità tale da essere dannosi per la salute.


A giudizio del Tar Trieste (sentenza n. 325/2016), gli elementi che debbono ricorrere nella fattispecie di mobbing (perché si possa ritenere provato) sono i seguenti:


1) molteplicità di comportamenti a carattere persecutorio,


2) evento lesivo della salute psicofisica del dipendente,


3) nesso tra condotta del datore e lesione dell'integrità psicofisica del lavoratore.


Va quindi posta la massima attenzione al momento di instaurazione del giudizio, in quanto singoli atti illegittimi del superiore di per se non sono idonei ad esprimere un comportamento mobizzante.


Occorre sempre dimostrare il complessivo disegno persecutorio, qualificato da comportamenti materiali o provvedimenti segnati dalla finalità di volontaria ed organica vessazione e discriminazione.


Al fine di raggiungere questa prova il Tar ritiene utile, ad esempio:


a) impugnare tempestivamente i singoli atti/provvedimenti illegittimi disposti via via dal datore nei confronti del dipendente,


b) evitare il bilanciamento di prove a carico con le prove a discarico, in altri termini evitare l'insufficienza di prove a favore (cosa che può accadere quando tali prove sono controbilanciate da episodi di segno contrario),


c) la stessa "remissione" della querela può trasformarsi in un elemento indiziario sfavorevole per comprovare il mobbing.


Come comportarsi in casi simili


Procedere con l'azione per danno da mobbing quando si è certi che il quadro probatorio è solido e idoneo a dimostrare il disegno persecutorio a danno del dipendente.

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Francesco Pandolfi
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Si occupa principalmente di Diritto Militare in ambito amministrativo, penale, civile e disciplinare ed и autore di numerose pubblicazioni in materia.
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