Per la Cassazione è integrato il più grave delitto di rapina e non quello di furto con strappo

di Marina Crisafi - Strappare il cellulare di dosso alla propria amata per pura gelosia può costare molto caro. È configurabile, infatti, il delitto di rapina e non quello meno grave di furto con strappo. Ad affermarlo è la seconda sezione penale della Cassazione, con una sentenza depositata pochi giorni fa (la n. 24297/2016 qui sotto allegata), rigettando il ricorso di un uomo condannato, in primo e secondo grado, a un anno e 8 mesi di carcere oltre multa (con sospensione condizionale della pena) per rapina e lesioni, per aver letteralmente scippato il cellulare alla propria ragazza nell'intento di leggere i messaggi in esso contenuti alla ricerca di prove del suo tradimento.

A nulla sono valse le tesi dell'imputato che contestava la qualificazione giuridica del fatto, inquadrato come rapina e non come scippo, e la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato, non avendo lo stesso agito alla ricerca di un profitto, neanche nell'accezione più ampia del termine.

Quanto alla prima doglianza, infatti, per gli Ermellini, la questione relativa alla mancata qualificazione giuridica del fatto come violazione dell'art. 624-bis c.p. è stata correttamente esaminata dai giudici di merito in conformità a quanto più volte affermato dalla stessa giurisprudenza di legittimità. In tal senso, più volte, è stato ribadito che "integra il reato di furto con strappo la condotta di violenza immediatamente rivolta verso la cosa e solo in via del tutto indiretta verso la persona che la detiene, mentre ricorre il delitto di rapina, quando la res sia particolarmente aderente al corpo del possessore e la violenza si estenda necessariamente alla persona, dovendo il soggetto attivo vincerne la resistenza e non solo superare la forza di coesione inerente alla normale relazione fisica fra il possessore e la cosa sottratta" (cfr., tra le altre, Cass. n. 41464/2010).

Nel caso di specie, l'imputato ha diretto la propria azione violenta nei confronti della ragazza per arrivare ad impossessarsi definitivamente del telefonino che, infatti, i carabinieri hanno ritrovato in una delle tasche dei suoi pantaloni.

Quanto alla seconda doglianza, anch'essa è manifestamente infondata.

"In tema di reati contro il patrimonio - hanno ricordato dal Palazzaccio - il profitto non consiste necessariamente in un vantaggio di natura patrimoniale, potendosi concretare in qualsiasi utilità, anche solo morale, in qualsiasi soddisfazione, piacere o godimento che l'agente si riprometta di ritrarre, anche non immediatamente, dalla propria azione purché questa sia attuata impossessandosi con violenza e minaccia della cosa mobile altrui, mediante sottrazione a chi la detiene". Nella vicenda, il fatto che l'uomo abbia agito "al solo scopo di esaminare le conversazioni o i messaggi figuranti nel cellulare", proprio tale riconosciuta finalità "integra pienamente il requisito dell'ingiustizia del profitto che l'agente voleva ricavare dall'impossessamento del telefono cellulare della sua fidanzata". L'instaurazione di una relazione sentimentale tra due persone, hanno ricordato quindi i giudici della S.C., "appartiene alla sfera della libertà e rientra nel diritto inviolabile all'autodeterminazione fondato sull'art. 2 della Costituzione, dal momento che non può darsi una piena ed effettiva garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo (e della donna) senza che sia rispettata la sua libertà di autodeterminazione". Ciò comporta la libertà di intraprendere relazioni sentimentali e di porvi fine. Ne consegue che la pretesa dell'uomo di "perquisire" il telefono della donna alla ricerca di messaggi "compromettenti, rappresenta il profitto conseguito e assume i caratteri dell'ingiustizia manifesta proprio perché, violando il diritto alla riservatezza, tende a comprimere la libertà di autodeterminazione della donna e si pone in prosecuzione ideale con il reato di lesioni, avente ad oggetto le lesioni arrecate dall'imputato alla sua fidanzata nel mentre era in preda di una crisi di gelosia".

Per cui, condanna confermata per l'uomo che dovrà pagare anche le spese di giudizio.

Cassazione, sentenza n. 24297/2016

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