Rivoluzionaria novità della Suprema Corte, secondo la quale ai fini dell'assegnazione non conta il radicamento del figlio nella casa familiare

Prof. Marino Maglietta - Con la sentenza n. 3331 del 2016 (qui sotto allegata) la Corte di Cassazione sconvolge i criteri fin qui seguiti nell'assegnazione della casa familiare in caso di separazione o divorzio.

Giurisprudenza costante, sia di merito che di legittimità, aveva, infatti, sistematicamente affermato che la casa in cui la coppia era vissuta non poteva essere tolta al proprietario se non in via eccezionale e con motivazione fondata sulla tutela del superiore interesse del minore.

A lui, già turbato dalla rottura del legame familiare, non poteva essere chiesto anche di rinunciare al suo habitat, ai luoghi ove si era fin lì svolta la sua esistenza. Esemplare sul punto Cassazione n. 26574 del 17 dicembre 2007, come pure, tra le più recenti, la sentenza del 22 luglio 2015, n. 15367, ove si legge che "l'assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario risponde all'esigenza di tutela degli interessi dei figli, con particolare riferimento alla conservazione del loro 'habitat' domestico inteso come centro della vita e degli affetti dei medesimi, con la conseguenza che detta assegnazione non ha più ragion d'essere soltanto se, per vicende sopravvenute, la casa non sia più idonea a svolgere tale essenziale funzione". Ove "conservare" è termine che fa ovviamente riferimento al passato e non al futuro del figlio.

Viceversa, nella fattispecie si è di fronte a una coppia che ha abitato insieme nella "casa familiare" solo prima che il figlio nascesse. Poi, alla sua nascita la signora se ne è allontanata per la necessità di curare una forma depressiva e di lì è uscito anche il padre, incaricato della custodia del figlio, per andare a vivere presso la nonna. Le cose sono andate avanti così per alcuni anni. Successivamente la signora, al momento in cui ha recuperato sufficiente autonomia, ha chiesto che il figlio fosse collocato presso di lei, in regime di affidamento condiviso, e che le venisse assegnata la casa familiare. A questo punto, una soluzione aderente alle prescrizioni di legge - nello spirito e nella lettera - avrebbe voluto che si evitasse di creare ancora una volta la figura del "genitore collocatario - stabilendo pari opportunità di contatto con il figlio per i due genitori - e che si disponesse della casa ai sensi delle norme sullo scioglimento della comunione dei beni, trattandosi di una comproprietà.

La Suprema Corte, viceversa, ha adottato un criterio chiaramente adultocentrico, pur sostenendo la necessità di mettere al primo posto "l'interesse dei figli".

In altre parole, la Cassazione afferma: è in nome di tale interesse che si assegna la "casa familiare"; ma cos'è una "casa familiare"? Il luogo dove la coppia genitoriale in epoca precedente aveva deciso di stabilirsi e mettere al mondo dei figli. Quindi la casa va assegnata al genitore collocatario (la madre, perché genitore più disponibile verso l'altro) anche se per il figlio è luogo del tutto anonimo.... non rendendosi che ciò che conta è la funzione di "nido" per il minore che legittima la decisione, e non la destinazione che originariamente gli era stata data dagli adulti. Addirittura, proprio in nome del rispetto dell'habitat, probabilmente a quel bambino avrebbe fatto piacere rimanere ad abitare nei pressi della nonna. A supporto di questa tesi può rammentarsi che in assenza di figli non si può procedere ad assegnare la casa familiare ad altri che non sia il proprietario a prescindere dal progetto della coppia; ovvero che quando un figlio, per un motivo qualsiasi, cessa di vivere nella casa familiare anche l'assegnatario se se deve andare (v. supra).

Ciò che adesso più preoccupa è la conflittualità che una decisione di questo tipo può innescare. Non resta che sperare che il Parlamento, avendo già in calendario la riscrittura delle norme sull'affidamento, voglia rapidamente porvi mano per fare chiarezza.

Cassazione, sentenza n. 3331/2016

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