Analisi su alcune problematiche dell'istituto alla luce del disposto dell'art. 30-bis c.p.c. e della sentenza n. 147/2004 della Corte Costituzionale

di Casimiro Mondino - Inutile negarlo: nella magistratura italiana, accanto alle eccellenze che si distinguono per competenze e qualità umane, vi sono anche alcuni magistrati il cui operato è quanto meno discutibile, non solo per la scarsa preparazione e per la superficialità con cui decidono le controversie ma anche per il modo di relazionarsi con le parti in causa.

Purtroppo gli errori giudiziari sono ancora troppi, e lo dimostra se non altro il continuo ribaltamento di decisioni tra il primo grado, l'appello e la Cassazione. Rispetto a tale circostanza, peraltro, manca una tutela effettiva del cittadino, che avrebbe diritto in teoria ad essere risarcito dallo Stato rispetto alla responsabilità dei magistrati, ma al quale di fatto la cd. clausola di salvaguardia preclude spesso ogni possibile ristoro dei danni subiti. Anche la strada della responsabilità disciplinare è ostacolata e ben di rado si giunge a dei provvedimenti sanzionatori.

Ci sono però altri aspetti da sottolineare. E' possibile ad esempio ipotizzare che non solo un CTU o un cancelliere possano commettere reati come l'abuso d'ufficio, o il rifiuto di atti d'ufficio, ma anche un magistrato che rifiuta di emettere un provvedimento o che lo nega senza una vera e propria motivazione?

Oggi il cittadino vive una situazione in cui i meccanismi operativi dei tribunali sono a volte così lontani dalle sue attese (e per certi versi anche dalla volontà del legislatore) e che lo priva in molti casi del diritto al processo (e non solo al giusto processo).

Ad aggravare tale situazione si aggiungono anche la genericità e l'inadeguatezza delle norme che regolano l'operato dei magistrati e la loro responsabilità, rendendo complesso per il cittadino comprendere esattamente come tutelare i propri diritti nel processo.

Una delle tante lacune su cui soffermarsi riguarda l'istituto della ricusazione del giudice ed in particolare del giudice civile. Almeno sulla carta la ricusazione serve proprio a garantire al cittadino l'imprescindibile diritto alla terzietà del giudice. Ma tale diritto è spesso sminuito e marginalizzato.

Due diverse discipline per la ricusazione

La disciplina normativa della ricusazione in ambito civile, stando ad una riflessione rigidamente Costituzionale, dovrebbe essere necessariamente la medesima che si applica al giudice penale e viceversa; questo perché se al giudice civile si applicano solo le disposizioni attualmente previste dal codice di procedura civile

si determina una disparità di trattamento in rapporto alle disposizioni che si applicano al giudice penale, ovvero la ricusazione di due magistrati (uno che opera in ambito civile ed uno che opera in ambito penale) sarebbe soggetta a una diversa disciplina e ciò solleva qualche dubbio di costituzionalità in relazione agli articoli 3 e 24 della Costituzione.

Allo stato, sono state create due diverse discipline sulla base della materia su cui il giudice è chiamato a pronunciarsi e giungendo, con un percorso contrario a ogni logica, a privilegiare la materia penale rispetto alla materia civile e nella materia civile a privilegiare i risarcimenti e le restituzioni ad esecuzioni, misure cautelari o altro.

E' come se il diritto alla terzietà del giudice venisse meno (o risultasse "affievolito") quando si trattano questioni che si considerano di "minor rilievo".

Ma modulare il diritto alla terzietà del giudice sulla base della materia trattata è a dir poco avventuroso.

Il diritto all'imparzialità del giudice dovrebbe essere indipendente dal tema o dalla materia su cui lo stesso è chiamato a pronunciarsi giacché in uno stato di diritto è necessario garantire a tutte le parti di un processo, sia esso civile che penale, un doveroso riequilibrio al fine di preservare, sopra ogni cosa, il diritto ad un giudice imparziale.

Le pronunce della Corte costituzionale

Una soddisfacente tutela del diritto ad un giudice terzo era stata raggiunta con la legge 420/1998 che imponeva di applicare a tutte le cause in cui erano parte i magistrati civili le medesime regole di competenza per territorio previste per i giudici penali dall'articolo 11 c.p.p.

Ma poco dopo l'entrata in vigore di questa norma di discreta garanzia (se si ha un po' di esperienza processuale reale e non meramente accademica, si sa quale sia la distanza tra diritto e realtà nei tribunali civili) la Corte Costituzionale, investita della domanda di illegittimità dell'articolo 30-bis c.p.c. ha pronunciato una sentenza di illegittimità parziale (la numero 147 del 25 maggio 2004) statuendo che l'articolo 30-bis non è incostituzionale solo quando la garanzia di terzietà richiesta è rilevante, ed indicando nella parte decisoria due tipi di procedimenti in cui la deroga della competenza per territorio prevista dall'articolo 30-bis è legittima:

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 30-bis, primo comma, del codice di procedura civile, ad eccezione della parte relativa alle azioni civili concernenti le restituzioni e il risarcimento del danno da reato, di cui sia parte un magistrato, nei termini di cui all'art. 11 del codice di procedura penale.

Questa decisione si fonda su un ragionamento sfortunatamente distorto di cui la Corte non si è avveduta, forse perché concentrata nell'affermare il proprio orientamento e non la tutela Costituzionale della norma.

Infatti il Tribunale di Bari, dovendo celebrare un divorzio consensuale tra Magistrati di cui uno in servizio presso lo stesso tribunale di Bari, e dovendo applicare la deroga del foro ai sensi dell'articolo 30-bis, aveva sollevato questione di legittimità Costituzionale così motivando:

A sostegno della non manifesta infondatezza della questione, il Tribunale rileva che la Corte Costituzionale - cui, anteriormente all'entrata in vigore della norma impugnata, era stata sottoposta la questione di costituzionalità della mancata estensione al processo civile del foro derogatorio previsto dall'art. 11 cod. proc. pen. per i procedimenti riguardanti magistrati - aveva riconosciuto (sentenza n. 51 del 1998) che tale estensione non poteva avvenire indiscriminatamente per tutti i processi civili - per la netta distinzione esistente tra il processo civile e quello penale - ma doveva disporsi dal legislatore, previa valutazione della diversità dei possibili oggetti del primo.

Tuttavia, osserva il rimettente che il legislatore, senza tener conto di siffatta indicazione, ha - con l'art. 30-bis cod. proc. civ. - esteso la competenza territoriale prevista dall'art. 11 cod. proc. pen. a tutte le cause civili e che proprio questa soluzione è stata censurata dalla Corte con la sentenza n. 444 del 2002, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 30-bis cod. proc. civ., nella parte in cui si applica ai processi di esecuzione forzata promossi da o contro magistrati.

Ovvero il Giudice remittente richiama (come prima di lui ha fatto il Giudice remittente che ha ottenuto la sentenza 444/2002), al fine di ottenere l'accoglimento della propria richiesta di fatto priva di una solida ed incontrovertibile ragione di incostituzionalità ed oltremodo contraria alla volontà del legislatore, una decisione della Corte Costituzionale che discrimina su un diritto assoluto modulandolo sul valore giuridico del procedimento; orientamento che il legislatore ha ignorato intenzionalmente, rilevando la mancanza di effettiva tutela del diritto che la legge si prefiggeva di garantire, cioè la tutela del diritto ad un Giudice terzo.

Approvando una modulazione in cui in sede penale si riconosce il diritto alla piena tutela del diritto ad un Giudice terzo mentre in sede civile no, la Corte Costituzionale ha creato una discriminazione tra i cittadini che sono sottoposti ai processi penali e i cittadini che sono sottoposti a processi civili, sancendo in sostanza che i primi meritano piena tutela del diritto ad un Giudice terzo, i secondo no. Basti pensare che nella sentenza 444/2002 si privava il cittadino che dovesse attuare un procedimento esecutivo della diritto ad un Giudice il più imparziale possibile, mentre nella sentenza 147/2004 si privano tutti i cittadini impegnati nel civile contro Magistrati di tale diritto attuando un'interpretazione discriminatoria del diritto soggettivo assoluto ad un Giudice terzo.

Il diritto alla terzietà del Giudice, invece, non può essere vincolato alla natura del contendere, ma è vincolato al diritto di ottenere una pronuncia imparziale indipendentemente dal procedimento, altrimenti si dovrebbe discriminare anche tra giudizi penali in base alla gravità del reato, all'importanza delle persone coinvolte, all'entità del danno e così via, tutte forme di modulazione assolutamente discriminatorie e palesemente incostituzionali; esattamente come discriminatoria ed incostituzionale è la discriminazione tra tipologie di procedimento adottate dalla Corte sebbene "astratte" e quindi meno percepibili come tali.

Insomma, se si procedesse con questo metodo di modulazione, allora anche nel penale si dovrebbe agire in modo tale che se il reato è lieve non si dovrebbe avere diritto alla tutela, quindi non si derogherebbe per territorio, mentre se il reato è grave si dovrebbe avere il diritto alla piena tutela del diritto alla terzietà del Giudice, quindi si derogherebbe. Il giudizio, invece, indipendentemente dalla materia affrontata è un atto giuridico che deve garantire sempre un giusto processo, ovvero il pieno e rigoroso rispetto della legge e il totale e corretto accertamento dei fatti rilevanti, di ragionevole durata, dinanzi ad un Giudice terzo.

Non si possono introdurre modulazioni qualitative discriminatorie se si vuole garantire il corretto rispetto del dettato Costituzionale, inoltre non si può introdurre una discriminazione gravissima tra cittadini che ricoprono medesime funzioni ovvero i Giudici (a meno che non si voglia sostenere che il Giudice penale è un Giudice di serie A ed il Giudice civile è un Giudice di serie B ed il Giudice amministrativo un Giudice di serie C);

Per tanto il Giudice remittente, a parte sollecitare e solleticare la Corte suggerendo ed offrendo la possibilità di riaffermare il convincimento della stessa avverso alle decisioni del legislatore, non offre di fatto alcun ragionamento ammissibile al fine di chiedere la valutazione dell'illegittimità dell'articolo 30-bis eppure la ottiene:

Perciò lo spostamento della competenza ai sensi della norma censurata sarebbe intrinsecamente irragionevole ed inoltre discriminerebbe - ai fini della realizzazione del diritto di azione - la situazione soggettiva del magistrato in servizio nel distretto del giudice ordinariamente competente rispetto a quella del magistrato in servizio altrove o del non-magistrato.

In questo secondo motivo di incostituzionalità la mancanza di reale fondamento della domanda è lampante, si parte omettendo intenzionalmente la reale situazione di vantaggio, e di palese mancanza di serenità nel Giudicare un collega, per il Magistrato che opera nel medesimo foro o nel medesimo distretto di corte di Appello e lo si equipara surrettiziamente al Magistrato non operante nel foro per appellare una supposta incostituzionalità creata dal generarsi di una disparità tra i due soggetti; ovvero si occulta il vantaggio del Magistrato che opera da "residente" e lo si equipara al cittadino normale o al Magistrato fuori distretto, come se non ci fosse alcun reale vantaggio ad essere un operatore attivo di un determinato tribunale; si sta decidendo dell'illegittimità costituzionale di una norma su basi di pura ed astratta teoria totalmente prive di riscontro fattuale. Come può la Corte Costituzionale assegnare garanzie Costituzionali ai cittadini che agiscono in un processo penale contro un Magistrato e negare le medesime a cittadini che agiscono in un processo civile contro un Magistrato?

Si vuole forse richiamare un principio di deontologia e di eticità che non ha alcun riscontro nella realtà? La diffusione delle informazioni oggi è ampissima, come mai ci si ostina ad ignorare la moltitudine di cittadini "traditi" incomprensibilmente e sistematicamente dalla giustizia?

Tornando al caso in questione, la Corte Costituzionale sentenzia assumendo una decisione che non è riuscita effettivamente a garantire la tutela dei diritti Costituzionali, affermando che:

Conclusivamente, la scelta legislativa di sottoporre alla regola di competenza di cui all'art. 30-bis le controversie di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario proposte con domanda congiunta dei coniugi violerebbe gli artt. 3 e 24 della Costituzione.

Il rimettente auspica infine che, accolta la questione, questa Corte, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, dichiari l'illegittimità consequenziale dello stesso art. 30-bis anche per la parte relativa all'applicazione del foro derogatorio alle domande congiunte di scioglimento del matrimonio, previste dallo stesso art. 4, primo comma, della legge n. 898 del 1970, nonché a quelle di omologazione della separazione consensuale ai sensi dell'art. 711 cod. proc. civ. o di modifica delle condizioni della separazione o del divorzio, ai sensi degli artt. 710-711 cod. proc. civ. e 9 della legge n. 898 del 1970.

Il Giudice remittente propone delle conclusioni che, sebbene non sostenute con argomenti inconfutabili (ci sono ad esempio, divorzi o separazioni consensuali che sono attuate con truffa ai danni di uno dei due soggetti, quindi la terzietà e la "vigilanza" del giudice deve essere sempre ai massimi livelli, per tanto anche in casi labilmente contenziosi non si può privare una delle due parti del diritto ad un Giudice terzo, la legge non è e non può essere "comodità" deve essere tutela effettiva dei diritti), propongono comunque una soluzione valutabile e quasi di buon senso, ovvero chiede specificamente alla Corte Costituzionale di dichiarare l'illegittimità dell'articolo 30-bis solo in relazione alle cause di separazione e divorzio congiunte, ovvero dove non vi è un effettivo livello contenzioso che imponga l'imperiosa e rigorosa tutela della terzietà del Giudice.

La Corte Costituzionale, non opera in una direzione di reale garanzia Costituzionale accogliendo la richiesta del remittente, ma decide di estendere, al fine di imporre al legislatore la propria linea interpretativa, l'incostituzionalità dell'articolo 30-bis a tutte le cause civili fatta eccezione per le azioni civili concernenti le restituzioni e il risarcimento del danno da reato in cui sono parte Magistrati. Ovvero la Corte emette una pronuncia che limita la reale protezione del diritto ad un Giudice terzo, garantita dall'articolo 30-bis, producendo una grave disparità tra giudicato Civile e Penale e tra cittadini sottoposti a cause civili e penali.

La parte di motivazione cerca di mantenere al provvedimento una parvenza di legittimità Costituzionale (come è anche avvenuto nella sentenza 444/2002) senza però incidere efficacemente sulla rimozione di eventuali violazioni incostituzionali (di difficile individuazione se ci si rifà alla realtà operativa e non alla teoria dottrinale) e generandone invece di rilevanti perché crea una discriminazione qualitativa giuridica che non può essere ammessa come legittima.

La competenza per territorio della ricusazione

Tornando all'incidenza della sentenza in oggetto sulla competenza per territorio della ricusazione del Giudice Civile va innanzi tutto chiarito che l'articolo 30-bis statuisce che:

Le cause in cui sono comunque parti magistrati,

ovvero: tutte le questioni su cui verte la discussione delle parti (causa = controversia = questione su cui verte la discussione tra le parti), in cui in qualunque modo sono coinvolti i Magistrati

sono di competenza del giudice, ugualmente competente per materia, che ha sede nel capoluogo del distretto di corte d'appello determinato ai sensi dell'articolo 11 del codice di procedura penale

Ovvero: sono di competenza del tribunale indicato o nella tabella della legge 420/1998 o della Tabella A delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale

Quindi è inoppugnabile che anche la ricusazione rientrava nella deroga alla competenza territoriale prevista dall'articolo 30-bis c.p.c., ed il solo buon senso è sufficiente a comprendere che la deroga territoriale ha il compito di allontanare dall'ambiente operativo abituale del Magistrato il procedimento per garantirne una maggior serenità di pronunciamento (maggiore e non assoluta, perché anche in questo caso se non si fanno i conti con la realtà si rischia, come di fatto avviene nel quotidiano, di annichilire totalmente il diritto) e la terzietà del giudice.

Ad una lettura affrettata, la sentenza potrebbe indurre a ritenere che il procedimento di ricusazione non rientri nei casi in cui si applica la deroga dell'articolo 30-bis, perché non espressamente richiamata nella sentenza della Corte Costituzionale; ma se ci si ferma a riflettere si rileva che la Corte conserva la legittimità costituzionale per quelle ragioni che in modo evidente richiedono la massima garanzia di terzietà nel pronunciamento, ovvero:

ad eccezione della parte relativa alle azioni civili concernenti le restituzioni e il risarcimento del danno da reato, di cui sia parte un magistrato, nei termini di cui all'art. 11 del codice di procedura penale.

È vero che, in modo poco comprensibile, la Corte, nel definire rigidamente i due eventi, pone una apparente delimitazione rigida alle cause a cui si applica la deroga prevista dall'articolo 11 c.p.p., ma in realtà c'è una forte analogia se non addirittura una coincidenza tra le due cause indicate dalla sentenza e la ricusazione in termini di necessità di garanzia del diritto ad un Giudice terzo.

La ricusazione è un atto grave che, se non attuato pretestuosamente, indica un comportamento da parte del Giudice tale da annullarne la sua terzietà di fatto (va ricordata la delicatezza del compito e quindi la severità con cui si deve garantire la terzietà, l'imparzialità, del Giudice).

Pertanto la ricusazione è preambolo inevitabile di una azione risarcitoria (il solo aver costretto la parte a proporre ricusazione è danno che è da ascrivere necessariamente a comportamenti che come minimo violano le leggi sulla deontologia, quindi come minimo ad un rifiuto di atti d'ufficio se non ad un abuso d'ufficio) che dovrà necessariamente essere assoggettata alla deroga per territorio prevista dall'articolo 30-bis c.p.c. perché legittima dal punto di vista costituzionale anche per la Corte Costituzionale.

Come si potrebbe garantire il rispetto dell'articolo 3 e dell'articolo 24 della Costituzione se in due condizioni identiche in relazione al diritto di garanzia della terzietà del Giudicato si applicassero due tutele completamente diverse?

Se la ricusazione fosse decisa nel medesimo foro in cui opera il Magistrato, o in uno dei fori del medesimo distretto di corte di appello, e la restituzione o il risarcimento del danno no, come si potrebbe affermare di aver garantito il medesimo diritto alla terzietà del Giudice?

Come pensate che decida un collegio di "colleghi" in relazione ad una ricusazione che può danneggiare irreversibilmente o gravemente un Magistrato con cui ogni giorno si opera?

Lo scrivente ve lo può dire con precisione ed anche documentare, se serve, ecco cosa succede nella realtà se la ricusazione del Magistrato è puntualmente e correttamente motivata:

il collegio, azzera il valore probatorio degli atti pubblici (sancito dall'articolo 2699 c.c.), mente circa i fatti, avvalora mere dichiarazioni prive di elementi probatori da parte del magistrato, occulta ed altera le leggi, anche in modo grave, altera e manipola il contenuto del ricorso al solo scopo di rigettarlo con ogni mezzo e quindi tutelare il collega, indipendentemente dai fatti provati, dalle azioni compiute e dai documenti forniti.

Ovvero nega completamente il diritto ad un giusto processo al ricorrente, e questa condizione si aggrava in modo inversamente proporzionale alla dimensione del Tribunale.

Quindi si può affermare che la ricusazione, sebbene non indicata espressamente dalla Corte, rientra in quella tipologia di eventi processuali che richiedono il massimo livello di garanzia decisoria e la massima serenità nel giudicato, a cui la motivazione della sentenza fa ampiamente riferimento, quindi è senza dubbio un procedimento a cui si deve applicare l'articolo 30-bis c.p.c.

Vedi anche nella sezione guide legali: 

- La ricusazione del giudice civile

La ricusazione


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