Cassazione Penale 24322/2015 ancora sul dolo generico nello stalking

STALKING -  Dolo generico

Cass. Pen. 24322/2015

 

Nota di Emanuela Foligno

 

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 17 febbraio - 4 maggio 2015, n. 24322

Una donna è  stata vittima di un uomo che la voleva totalmente sottomessa. L'uomo è stato  condannato per atti persecutori e per tentata violenza privata.

L'uomo ha affermato, anche in giudizio, di essere il padrone della vita della donna, la quale doveva sottostare totalmente  alla sua volontà.

La vittima è stata finanche costretta a ritirare la denuncia presentata nei confronti del molestatore.

Tale circostanza è stata considerata tentata violenza privata.

La Corte ha ritenuto che la minaccia "che sarebbe finita male" perpetrata dal molestatore nei confronti della vittima, era collegata e strettamente funzionale ad ottenere dalla persona offesa la remissione della querela, conseguentemente la Corte ha ritenuto che "quella ben precisa attività di minacciosa prevaricazione si distacca dal complesso dell'azione persecutoria, per assumere una sua autonomia, proprio per la sua specifica direzione a coartare la volontà della vittima ed ottenerne un determinato comportamento, e non solo a perseguitarla".

 Di seguito, la pronunzia oggetto di esame, che ribadisce la sufficienza del dolo generico nel reato di atti persecutori.

In fatto e diritto

Il Tribunale di Castrovillari, e successivamente la Corte d'Appello di Catanzaro hanno dichiarato la responsabilità del molestatore per i delitti di atti persecutori e tentata violenza privata.

L'imputato ha proposto ricorso per Cassazione, deducendo vizio di motivazione sul ricorrere del delitto di tentata violenza privata e omissione di motivazione e in ogni caso travisamento della prova sull'espressione "pensa bene perché finisce male" , considerata integrare il delitto di tentativo di violenza privata, mentre, al più, si sarebbe dovuta considerare come semplice minaccia compresa nel novero delle azioni persecutorie.  L'imputato, inoltre, ha sostenuto  difetto di motivazione sul dolo relativamente al delitto di atti persecutori.

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile in quanto manifestamente infondato.

Lo stesso ricorrente, ha osservato la Corte, nel produrre in allegato alla propria doglianza il verbale delle dichiarazioni della persona offesa, offre la misura di quanto la minaccia, "che sarebbe finita male", fosse collegata e strettamente funzionale ad ottenere dalla persona offesa un ben preciso comportamento, ovvero quello di ritirare la denuncia sporta nei suoi riguardi per i continui atteggiamenti di prevaricazione, così che quella ben precisa attività di minacciosa prevaricazione si distacca dal complesso dell'azione persecutoria, per assumere una sua autonomia, proprio per la sua specifica direzione a coartare la volontà della vittima ed ottenerne un determinato comportamento, e non solo a perseguitarla, con le conseguenze previste dalla specifica disposizione incriminatrice.

Sul secondo motivo ribadisce la Corte che, come ritiene costante giurisprudenza (Sez. V, n. 20993 del 27/11/2012, Rv. 255436)," è sufficiente ad integrare l'elemento soggettivo del delitto di atti persecutori il dolo generico, quindi la volontà di porre in essere le condotte di minaccia o di molestia, con la consapevolezza della idoneità delle medesime alla produzione di uno degli eventi alternativamente necessari per l'integrazione della fattispecie legale, che risultano dimostrate proprio dalle modalità ripetute ed ossessive della condotta persecutoria compiuta dal prevenuto e delle conseguenze che ne sono derivate sullo stile di vita della persona offesa, senza che occorra una rappresentazione anticipata del risultato finale, quanto, piuttosto, la costante consapevolezza, nello sviluppo progressivo della situazione, dei precedenti attacchi e dell'apporto che ciascuno di essi arreca all'interesse protetto, insita nella perdurante aggressione da parte del ricorrente alla sfera privata della persona offesa".

Ad avviso della Corte è sempre la produzione documentale dello stesso ricorrente, che lamenta travisamento della prova, a dare, invece, la misura della correttezza delle valutazioni al proposito dei Giudici del merito basate sulle affermazioni della persona offesa.

Le numerose e reiterate affermazioni dell'imputato che si è sempre ritenuto   padrone della vita della persona offesa,  e che la donna doveva sottostare alla sua volontà, riportate dalla donna nella deposizione dibattimentale prodotta dalla difesa, sono state legittimamente considerate come inequivoche manifestazioni della volontà di costante prevaricazione della donna, dalla quale l'imputato pretendeva di ottenere totale sottomissione.

All'inammissibilità del ricorso è conseguita, ai sensi dell'art. 616 C.P.P., la condanna in capo al  ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e - per i profili di colpa correlati all'irritualità dell'impugnazione - di una somma in favore della Cassa delle ammende nella misura che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo determinare in €. 1.000,00.

 

Avv. Emanuela Foligno - Milano - studiolegale.foligno@virgilio.it - Twitter @EmanuelaFoligno


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