di Licia Albertazzi  - Cassazione Civile, sezione terza, sentenza n. 659 del 5 Febbraio 2013

La legge 392/1978 (c.d. legge sull'equo canone) regola i rapporti tra locatore e locatario sia nel caso di conduzioni ad uso abitativo che commerciale. Nel caso in cui i locali concessi in locazione siano destinati ad un'attività commerciale che preveda il contatto con il pubblico (non solo secondo la legge ma in base alla comune esperienza) in caso di recesso o di mancato rinnovo alla scadenza contrattuale da parte del locatore, al locatario è dovuta per legge (art. 34 della normativa sopra citata) una indennità di avviamento, cioè una somma di denaro che rappresenta il compenso per la creazione di tutta quella ricchezza "immateriale" (clientela, nome, reputazione) che l'attività fino a quel momento aveva creato.

Al fine di tutelare il locatario da possibili misure volte ad impedire il versamento di questa indennità l'ordinamento ha posto determinati limiti alla libertà di stipula contrattuale. Nel caso di specie le parti hanno sottoscritto un contratto di locazione dotato di alcune clausole particolari: l'esclusione d'uso dell'immobile commerciale per attività che implichino il contatto con il pubblico (come, ad esempio, un'officina meccanica o un albergo) e la contemporanea autorizzazione all'utilizzo dello stesso per altri scopi propri di detta tipologia contrattuale. Applicando l'art. 34 della legge sull'equo canone in combinazione con l'art. 1367 del codice civile la Suprema Corte ha ritenuto inefficaci proprio queste due clausole contrattuali ritenendo che le parti le abbiano sottoscritte proprio per raggirare l'obbligo di legge a carico del locatore al versamento dell'indennità di avviamento.


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