Aperta la possibilità di un ristoro dal medico che avrebbe potuto diagnosticare la malattia ma nessuna pretesa risarcitoria per la figlia nata malata

di Lucia Izzo - Non c'è un diritto a non nascere. E' la vita infatti e non la sua negazione il bene supremo protetto dal nostro ordinamento.

Lo hanno stabilito le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione con la sentenza n. 25767/2015, pubblicata ieri (qui sotto allegata), rigettando la richiesta di risarcimento presentata dai genitori di una bambina down nei confronti dell'Asl di Lucca e dei primari dei reparti di ginecologia e laboratorio analisi, per non aver diagnosticato la patologia da cui era affetto il feto, non consentendo così alla madre, se correttamente informata, di abortire.

La controversia giunta dinanzi al Supremo consesso è delicata: la donna aveva partorito la bambina risultata affetta da sindrome di down, evento totalmente inatteso essendosi la stessa sottoposta a esami diagnostici per evidenziare possibili malformazioni del nascituro. I genitori avevano pertanto trascinato Asl e medici in giudizio al fine di ottenere il risarcimento del danno per non aver richiesto accertamenti ulteriori visti i risultati degli esami.

Per i giudici territoriali, il risarcimento del danno non conseguiva automaticamente all'inadempimento dell'obbligo di esatta informazione a carico dei sanitari su possibili malformazioni del nascituro, bensì era soggetto alla prova della sussistenza delle condizioni previste dalla legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza) per ricorrere all'interruzione della gravidanza.

Sul punto, gli attori non avevano fornito delle specifiche allegazioni, limitandosi ad affermare che corrispondeva a regolarità causale il rifiuto della gestante, se correttamente informata, a portare a termine la gravidanza.

Le Sezioni Unite, a cui la causa è assegnata a seguito di rimessione effettuata dalla terza sezione civile, sono chiamate a pronunciarsi in ordine alla questione dell'onere probatorio circa l'interruzione di gravidanza a cui la donna si sarebbe eventualmente sottoposta se adeguatamente informata sulle malformazioni del feto.

Gli Ermellini chiariscono che l'interruzione è legalmente consentita se sussistono e siano accertabili mediante appropriati esami clinici, le rilevanti anomalie del nascituro e il loro nesso eziologico con un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. Senza il concorso di tali presupposti, l'aborto integrerebbe un reato.

Si tratta fatto complesso, cioè di un accadimento composto da molteplici circostanze e comportamenti proiettati nel tempo: la rilevante anomalia dei nascituro, l'omessa informazione da parte del medico, il grave pericolo per la psicofisica della donna, la scelta abortiva di quest'ultima.

Nel caso in esame un aspetto particolarmente delicato è costituito dalla circostanza che la prova verte anche su un fatto psichico, e cioè, su uno stato psicologico, un'intenzione, un atteggiamento volitivo della donna, che la legge considera rilevanti.

In tal caso, "l'onere probatorio - senza dubbio gravoso, vertendo su un'ipotesi, e non su un fatto storico - può essere assolto tramite dimostrazione di altre circostanze, dalle quali si possa ragionevolmente risalire, per via induttiva, all'esistenza del fatto psichico che si tratta di accertare".

Nella vicenda, la Corte d'appello ha ritenuto che l'onere della prova di tutti presupposti della fattispecie di cui all'art. 6 ricadesse sulla gestante, inclusa quindi, la prova che ella avrebbe positivamente esercitato la scelta abortiva.

Al riguardo, la Cassazione osserva che "se la premessa astratta appare esatta, dal momento che i presupposti della fattispecie facoltizzante non possono che essere allegati e provati dalla donna, ex art.2697 cod. civ. (onus incumbit ei qui dicit) - con un riparto che appare dei resto rispettoso dei canone della vicinanza della prova - si palesa manchevole, invece, l' omessa valutazione - che sembra adombrare un'esclusione aprioristica - della possibilità di assolvere il relativo onere in via presuntiva".

Quindi, il motivo è accolto, dovendo la Corte d'Appello prendere in considerazione la possibilità di una prova presuntiva, in concreto desumibile dai fatti allegati, restando impregiudicato l'accertamento susseguente dell'effettivo evento di danno conseguito al mancato esercizio dei diritto di scelta, per eventuale negligenza dei medico curante, parimenti oggetto di prova.

Esclusa, infatti, la configurabilità di un danno in re ipsa, occorre che la situazione di grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna , ex art. 6 lett. b) l. 194/1978 (danno potenziale), si sia poi tradotta in danno effettivo, eventualmente verificabile anche mediante consulenza tecnica d'ufficio.

Non è possibile accogliere, invece, la richiesta di risarcimento per negazione del diritto del figlio, affetto dalla sindrome di Down, di un'esistenza sana e dignitosa.

Non si può stabilire un nesso causale tra la condotta colposa del medico le sofferenze psicofisiche cui il figlio è destinato nel corso la sua vita.

L'affermazione di una responsabilità del medico verso il nato aprirebbe, per coerenza, la strada a "un'analoga responsabilità della stessa madre, che nelle circostanze contemplate dall'art. 6 1.194/1978, benché correttamente informata, abbia portato a termine la gravidanza: dato che riconoscere il diritto di non nascere malati comporterebbe, quale simmetrico termine del rapporto giuridico, l'obbligo della madre di abortire".

L'ordinamento, infatti, non riconosce il "diritto alla non vita", sicché appare evidente che la vita di un bambino disabile non può considerarsi un danno.

Danno di cui si farebbero interpreti unilaterali i genitori nell'attribuire alla volontà dei nascituro il rifiuto di una vita segnata dalla malattia, come tale, indegna di essere vissuta.

II contrario indirizzo giurisprudenziale e dottrinario, favorevole alla riconoscibilità di una pretesa risarcitoria del nato disabile verso il medico, "pur se palesi un'indubbia tensione verso la giustizia sostanziale, finisce con l'assegnare, in ultima analisi, al risarcimento del danno un'impropria funzione vicariale, suppletiva di misure di previdenza e assistenza sociale".

Infatti, è tendenza generale anche in Europa il "ritenere compensabile la penosità delle difficoltà cui il nato andrà incontro nel corso della sua esistenza, a cagione di patologie in nessun modo imputabili eziologicamente a colpa medica, mediante interventi di sostegno affidati alla solidarietà generale; e dunque, nella sede appropriata alla tutela di soggetti diversamente abili e bisognosi di sostegno per cause di qualsivoglia natura, anche diversa da quella in esame".

Sezioni Unite Civili, sent. 25767/2015

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