Va oltre il mero esercizio arbitrario delle proprie ragioni l'aver prelevato e cancellato tutto il materiale di lavoro prima di lasciare lo studio associato

di Marina Crisafi - Una decisione maturata da qualche mese e comunicata ai colleghi, poi, all'alba dell'addio si era introdotto clandestinamente di notte nello studio associato e aveva prelevato oltre 10.000 file, tra fascicoli relativi ai clienti, parcelle, modulistica e persino l'agenda utilizzata dagli altri colleghi, per poi cancellare ogni cosa. La condotta del legale va inquadrata nel reato di furto e non in quella di mero esercizio delle proprie ragioni. Così ha deciso la Cassazione, con la sentenza n. 32383 depositata ieri (qui sotto allegata), investita della vicenda di un avvocato che, una volta deciso di abbandonare lo studio associato di cui faceva parte vi si era introdotto di notte, con le chiavi di cui ancora era in possesso, prelevando tutto il materiale contenuto nel server poi cancellando tutto e comunicando l'indomani via fax ai colleghi di aver asportato i vari fascicoli e di non voler partecipare alla conciliazione.

Per la S.C., infatti, il professionista aveva agito nella piena consapevolezza dell'altruità dei beni sottratti, mosso altresì da un fine di profitto personale, allo scopo di rendere impossibile, di fatto, all'associazione "la corretta quantificazione dei propri crediti - e riservando solo a se stesso - la possibilità di ricevere dai clienti crediti spettanti all'associazione per l'attività svolta non da lui personalmente", ma da lui stesso quale legale parte di un'associazione professionale.

Sbaglia, dunque, la Corte d'Appello, ha sottolineato quindi il Palazzaccio accogliendo il ricorso del pubblico ministero, a non aver ravvisato nell'operato del legale il reato di furto

(né tanto meno quello di frode informatica), per aver ritenuto che, visto che solo mille dei 10000 file erano degli altri colleghi, il professionista avesse agito soltanto per prendere possesso di quanto riteneva di proprio esclusivo interesse. Oltre alle modalità clandestine della condotta, infatti, c'è da tenere in conto, ha sottolineato ancora la Cassazione, che la titolarità del fondo comune e, dunque, dei beni che ne fanno parte "è dell'associazione quale soggetto di diritto e non dei singoli associati" con la conseguenza che i fascicoli sottratti erano di proprietà dell'associazione stessa, quanto meno con riferimento ai documenti frutto del lavoro e delle spese degli associati.

Quanto ai redditi inoltre ricorda la S.C. nello studio associato è prevista l'ipotesi di redditi prodotti in forma associata. Ciò vale ad escludere in radice "la possibilità che il legale ebbe ad agire nella convinzione di esercitare diritti che riteneva gli spettassero, e per i quali gli sarebbe stato possibile agire in giudizio". Al contrario, ha concluso la S.C., la sua condotta era stata animata "dall'intenzione di impedire agli altri associati, prima ancora di una tutela giurisdizionale, un effettivo controllo sulle reciproche spettanze". Parola dunque al giudice di rinvio che dovrà decidere sulla base dei principi indicati dalla Cassazione.

Cassazione n. 32383/2015

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