Avv. Francesca Cosentino - Com'è noto ai più, con la sentenza n.272 del 24 ottobre-6 dicembre 2012, la Corte Costituzionale dichiara illegittimo l'art.5 del decreto legislativo 4 marzo 2010,n.28 (attuazione dell'articolo 60 della legge 18 giugno 2009,n.69,in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali) per eccesso di delega
(violazione degli artt. 76 e 77 Cost.) nella parte in cui prevede l'obbligatorietà della mediazione;adducendo che l'opzione a favore del modello obbligatorio non può trovare fondamento nella disciplina europea e nella legge delega, né nella ratio ispiratrice dell'istituto, perché:
  1. la disciplina dell'UE - al cui rispetto e coerenza si richiamano la legge delega (art. 60, co 2 e 3, lett. c, L. n.69/09) ed il D.Lvo n. 28/10 (preambolo)- demanda ai singoli Stati membri la scelta del modello, purché non sia impedito "alle parti di esercitare il diritto di accesso al sistema giudiziario";così  l'art.5, co 2,della Direttiva 2008/52/ CE del Parlamento europeo e del Consiglio in data 21 maggio 2008, avente efficacia vincolante per gli Stati membri, che alla condizione statuisce che resta impregiudicata la legislazione nazionale che rende il ricorso alla mediazione obbligatorio; la sentenza

    della Corte di Giustizia dell'Unione europea in data 18 marzo 2010, Sezione quarta, pronunciata nelle cause riunite C-317/08, C-318/08, C-319/08, C-320/08 si ispira al principio.

Solo le Risoluzioni del Parlamento europeo in data 25 ottobre 2011 (2011/2117-INI) e in data del 13 settembre 2011 (2011/2026-INI),però prive di efficacia vincolante, contrastano espressamente  una forma di mediazione intesa come elemento obbligatorio della procedura giudiziaria.

  1. la legge-delega non prevede tra i principi e criteri direttivi di cui all'art.60, co 3, l'obbligatorietà della mediazione; né la sottintende nel disposto "senza precludere l'accesso alla giustizia" di cui alla lett .a) co 3, cit. art.,poiché di significato generale. Semmai, offre una chiara indicazione verso il modello facoltativo allorché vincola il Governo a «prevedere il dovere dell'avvocato di informare il cliente, prima dell'instaurazione del giudizio, della possibilità (non dell'obbligo, dunque, nda) di avvalersi dell'istituto della conciliazione nonché di ricorrere agli organismi di conciliazione» (art.60, co 3, lett.n).

  2. la ratio ispiratrice dell'istituto, comune alla norma europea e alla legge delega, è quella di  individuare forme alternative ed agili per la soluzione di controversie su diritti disponibili.

Ciò posto,si vuole brevemente osservare, senza pretese di bontà ed esaustività, se la mediazione tributaria obbligatoria sia illegittima sotto il rilevato profilo dell'eccesso di delega e/o sotto profili riflessi o, viceversa, se sia fondata su valide ragioni interne al sistema tributario. Per il primo aspetto, va detto tout court che l'art.17 bis, D.Lvo n. 546/92 tecnicamente non è abrogabile per eccesso di delega perché per l'istituto tributario, data l'assenza di una legge delega al Governo per l'adozione di uno o più decreti legislativi, non si pone a monte l'obbligo di osservare principi e criteri direttivi. La norma è stato introdotta,infatti,nel T.U. sul contenzioso tributario dall'art.39, co 9 del Decreto Legge n.98 del 2011, convertito nella legge n.111,15 luglio 2011,con il disposto:"Dopo l'articolo 17 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n.546, e' inserito il seguente articolo:..".Quindi,la valutazione deve riguardare i profili d'illegittimità riflessi dal carattere obbligatorio dell'istituto e dalla strutturazione della relativa procedura come anticipazione del contenuto del ricorso giudiziale e condizione di ammissibilità dello stesso. Sotto l'angolatura, la mediazione tributaria -più gravosa dell'istituto civile- delinea rispetto a questo maggiore incompatibilità, in più punti, con il diritto comunitario e con il diritto costituzionale. Quanto alla Non Compatibilità con il Diritto Comunitario L'istituto contrasta con la direttiva europea sulla mediazione civile e commerciale, che essendo l'unica vigente in Europa vale pure per la mediazione tributaria, per due ordini di ragioni:
  1. Non corrisponde al modello tipico di mediazione, perché non è alternativo e a basso costo, riguarda diritti non disponibili e soprattutto non prevede l'intervento di un "organo mediatore" ispirato alla terzietà ed imparzialità; la definizione della lite è affidata alla Direzione Provinciale o Regionale dell'Agenzia delle Entrate che ha emesso l'atto, laddove la normativa europea dispone "l'assistenza del mediatore" per raggiungere un accordo per la risoluzione della controversia (v. 17° considerando ed art. 3, lett. a), cit. Direttiva) e, lo individua in "qualunque terzo cui è chiesto di condurre la mediazione in modo in modo efficace, imparziale e competente" (v. art.3, lett b) ed il 17°  considerando cit. Direttiva).

  2. Preclude l'esercizio del diritto di accesso al sistema giudiziario (v. art.5, co 2), in quanto, contrariamente alla mediazione civile,commina per il mancato previo esperimento (c.d. giurisdizione condizionata) della procedura di mediazione la grave sanzione dell'inammissibilità del ricorso, dichiarabile d'ufficio in qualunque stato e grado del giudizio.

Quanto alla Non Compatibilità con il Diritto Costituzionale L'obbligatorietà solleva seri dubbi di legittimità costituzionale verso diritti fondamentali:
  1. Il diritto di agire in giudizio garantito dall'art. 24, co 1, Cost. a "tutti" e, più specificamente,il diritto alla tutela giurisdizionale contro gli atti della Pubblica Amministrazione, incondizionatamente garantita dall'art.113,Cost. risultano compressi dalla giurisdizione condizionata;la sanzione dell'inammissi- bilità è così sproporzionata rispetto all'esigenza deflattiva da assumere il carattere di privilegio ingiustificato, soprattutto se a fronte della susseguente definitività della pretesa tributaria.

In ogni caso, l'esercizio del diritto di azione è reso eccessivamente gravoso dal rischio della condanna alle spese della procedura di mediazione (pari al 50% delle spese di giudizio), ove il giudice non le compensi in tutto o in parte, ritenendo fondati i motivi che hanno indotto il soccombente a disattendere la proposta di mediazione. La responsabilità totale o parziale delle spese di giudizio può costituire un forte dissuasivo dal ricorso alla giustizia tributaria, come dimostrerebbe, stando ai dati forniti dall'Agenzia delle Entrate (v. Il Sole 24 Ore, 13.02.2013), l'alto indice di definizione dei reclami, pari ad oltre il 49,8%.

  1. Il diritto di difesa, ex  art. 24, co 2, Cost. "inviolabile in ogni stato e grado del procedimento", viene mortificato nella ‘discovery',dovendo il privato anticipare e provare in fase amministrativa tutte le difese di fatto e di diritto e motivare il rigetto della proposta con pronostico di fondatezza - pena l'aggravio delle spese-; nell'integrazione dei motivi e dei relativi altri mezzi di prova, consentita solo, ex art.24, co 2, D.Lvo n. 546/92, se l'integrazione "sia resa  necessaria dal deposito di documenti non conosciuti ad opera delle altre parti o per ordine della commissione"; nella pronta proposizione del ricorso giurisdizionale, differibile sempre di 90 gg + 30 o sino a 9 mesi e mezzo se il reclamo sia preceduto dalla proposta di accertamento con adesione (90 gg di sospensione del termine); nell'azionabilità di una qualche tutela cautelare giurisdizionale.

E, viene mortificato perfino in fase amministrativa, non essendo disposto in caso di successo il rimborso delle spese di mediazione obbligatoria, né, contrariamente all'istituto civile e commerciale, il diritto al credito d'imposta.

  1. Il diritto al giusto processo (art.111, co 1 e 2,  Cost.) è violato, perché: a) il contradditorio tra le parti non si svolge in condizioni di parità; l'ufficio è agevolato con l'anticipata ed esaustiva conoscenza delle contestazioni e con la possibilità di utilizzare le dichiarazioni e le informazioni acquisite in fase conciliativa;per cui, sotto l'egida degli interessi chiamato a realizzare potrebbe piegare ‘con ragionata consapevolezza' la tecnica di difesa alle sue esigenze; b) la proposta conciliativa del contribuente o dell'ufficio potrà ripercuotersi sull'imparzialità del giudice, sicché gli accordi proposti dal contribuente al mero scopo di tentare un vantaggioso sconto sulla pretesa e sulla pena (al 40%) o dall'ufficio per mero protocollo potrebbero, invece, diventare elementi di valutazione per la decisione finale.

Orbene, la ratio del reclamo e della mediazione, dichiaratamente voluti "al fine di assicurare una maggiore efficienza del sistema della giustizia tributaria"(D.L. n.98/2011),vorrebbe giustificare le predette ‘singolarità' costituzionali e comunitari con la preminente esigenza di alleggerire il giudice tributario per le questioni di modesto valore economico - non eccedenti il limite di € 20.000,00; ma la giustificazione si rivela fallace allorché si osservi: 1) che il valore della controversia va determinato al netto degli interessi e delle eventuali sanzioni, per cui è ben possibile che la somma pretesa dall'Ufficio ecceda anche di molto il limite di 20.000 euro; 2) che per le liti effettivamente "minori", inerenti tutti gli atti impositivi degli Enti Locali (Tarsu/Tia/Tares, Ici/Imu, Tosap), non è prevista la mediazione; 3) che esistono altri strumenti deflattivi del contenzioso, il cui mero potenziamento avrebbe facilmente realizzato lo scopo,senza incidere sul processo tributario e sui principi costituzionali che presiedono al suo giusto svolgimento; 4) che secondo l'Agenzia sarebbe ora opportuno alzare il tetto a 50.000,00 euro.

Quanto al principio di indisponibilità del tributo,cristallizzato nell'art.23 Cost"Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge",direi che, in teoria, esso non è violato dall'obbligatorietà e struttura della mediazione. Il principio di indisponibilità vieta, infatti,la discrezionalità amministrativa sull'an e sul quantum debeatur della prestazione e, qui, l'ufficio nell'esercizio del potere transattivo perseguirebbe l'interesse pubblico all'effettivo incasso di imposte commisurate alla forza economica del contribuente e,in ogni caso, si tratterebbe di crediti solo accertati e ancora contestabili davanti la Commissione Tributaria. Di fatto, però, le barriere al diritto di difesa e l'eventuale poca proporzionalità e ragionevolezza nell'azione della P.A. potrebbero inferire un certo colpo al grado di attualità ed effettività del suddetto principio.

Non resta allora che capire se, a livello sistematico, la mediazione sia veramente fondamentale allo scopo deflattivo e, dunque, fortemente pregnante rispetto agli strumenti esistenti. Quanto all'Essenzialità rispetto agli altri istituti deflattivi L'Agenzia delle Entrate, con la circolare n. 9 /E del 19 marzo 2012,elogia i tratti distintivi della mediazione nel fatto che, rispetto all'autotutela,obbliga il privato a presentare il reclamo e l'ufficio a provvedere al suo esame sistematico e all'espresso riscontro; rispetto all'accertamento con adesione,"non è limitata agli avvisi di accertamento" e vincola l'ufficio a tre criteri specifici di giudizio,"eventuale incertezza delle questioni controverse, grado di sostenibilità della pretesa e principio di economicità dell'azione amministrativa" (v. art.17 bis,co 8,D.Lvo n.546/92);cioè, assenza di orientamento giurisprudenziale, grado di dimostrabilità della pretesa tributaria in giudizio e fondatezza delle ragioni dell'istante, ottimizzazione dei procedimenti. I suddetti motivi non sono idonei a giustificare un'affermazione di essenzialità dell'istituto e della sua articolazione procedurale nell'ambito del sistema tributario. Il concordato,invero, è un mezzo circoscritto, non concernente  tutti gli atti emanati dall'Agenzia delle Entrate, ma non incontra il limite di valore e consente alle parti su iniziativa dell'ufficio o del privato -previa sospensione del termine d'impugnazione- di raggiungere un "accordo", basato sul riesame critico dell'accertamento tributario e sulla riduzione delle sanzioni. Se di esito negativo, il privato può adire autonomamente la via giurisdizionale senza maggiori costi. L'autotutela è un rimedio conveniente,non limitato a tipologie di atti e di valore, esperibile anche avverso atti definitivi per inutile decorso del termine d'impugnazione e, secondo la lettura combinata di significative pronunce (cfr.Cass.Civ.SS.UU.,6.2.2009,n.2870;20.02.2006,n. 3608)che escludono l'impugnabilità del diniego di autotutela di atto divenuto definitivo, esperibile persino dopo la formazione del giudicato ove sopravvengano elementi di illegittimità e/o infondatezza non dedotti nel giudizio che possano ben configurare una doverosità di eliminazione e, quindi,pure l'impugnabilità del diniego. E, soprattutto, non lascia alla P.A. "spazio alla mera discrezionalità" (cfr. Cass. Civ. Sez. III,20.04.2012, n. 6283), poiché il suo esercizio incontra un limite esterno nei principi di buon andamento, imparzialità ed economicità dell'azione amministrativa fissati dall'art.97 Cost. e, ovvio, nei principi della riserva di legge e di capacità contributiva fissati dagli artt. 23 e 53 Cost. Il suo esercizio, dunque, è guidato dai criteri esplicitati nel comma 8,art.17 bis,tanto che l'arbitrarietà nell'autotutela può determinare la responsabilità da danno da mancato annullamento. In pratica, il contribuente invita motivatamente l'ufficio o l'ente che ha emesso l'atto illegittimo e/o infondato a rimediare all'errore di diritto e/o di fatto mediante la sua eliminazione totale o parziale. La p.a., compiute le necessarie verifiche,deve provvedere nel rispetto delle regole di cui all'art.97 Cost. anche "in tempi ragionevoli" (C.Civ.Sez.III,n.6283/12) a non creare "un danno ingiusto", dunque non pregiudizievoli del termine utile per impugnare il provvedimento. Nel caso di diniego dell'annullamento in autotutela,il contribuente potrà opporre direttamente l'atto impositivo se non ancora definitivo oppure sottoporre il diniego al sindacato del giudice tributario sul "corretto esercizio del potere discrezionale dell'amministrazione, oltre che (sul)l'esistenza stessa dell'obbligazione tributaria"(v. per tutte, Cass. Civ. SS. UU., 27.03.2007,n.7388). Alla luce delle superiori considerazioni, sarebbe stato sufficiente al fine deflattivo e conforme ai parametri costituzionali rendere obbligatoria l'autotutela amministrativa - istanza e riscontro - per le liti di valore non superiore ad € 20.000,00, senza esclusione di tipologie di atti - con sospensione del termine per ricorrere; in caso di rigetto o di accoglimento parziale, consentire al contribuente il consueto esperimento della tutela giudiziaria contro l'atto impositivo o parte di esso, senza illegittime sovrapposizioni di sorta col processo tributario, né aumento dei costi. Tale scelta avrebbe ben soddisfatto pure l'esigenza tanto decantata dalla circolare 9/E-2012 di "consentire all'amministrazione la possibilità di esaminare preventivamente le doglianze degli utenti al fine di accertarne l'eventuale fondatezza, evitando lunghe e dispendiose procedure giudiziarie"(Corte Cost. sentenza n.15/91). In conclusione, vagliate la "ortodossia" della mediazione tributaria obbligatoria ai principi fondamentali e al sistema tributario e la riconosciuta legittimità della sola mediazione facoltativa (sent. 279/12, C.Cost.) non si può che concludere per l'auspicabile declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art.17 bis, D.Lvo n.546/92 ed il potenziamento di un istituto deflattivo coerente ai cardini costituzionali,quale l'autotutela amministrativa. Del resto, i dati forniti dall'Agenzia (Il Sole 24 Ore) fugano i dubbi: se l'indice di rigetto delle istanze è pari al 29,8% e l'indice di riduzione dei ricorsi giurisdizionali è di circa il 30 %, è chiaro che nella totalità dei casi il contribuente preferisce accettare, anche obtorto collo, la definizione del reclamo anziché adire la tutela giurisdizionale ai presupposti descritti.
Avv.  Francesca Cosentino
Foro di Catania


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