Non integra reato il comportamento dell'avvocato che butta letteralmente fuori il cliente che si trattiene nel suo studio legale contro la sua volontà: lo studio legale deve essere tutelato come una dimora privata. Anzi il cliente non gradito rischia una condanna ai sensi dell'art. 614 c.p. (violazione del domicilio). A dirlo una sentenza della Corte di Cassazione (n. 3014 depositata il 27 gennaio 2011) con cui gli Ermellini hanno accolto il ricorso di un avvocato, condannato per violenza privata
e lesioni per aver sbattuto una donna fuori dal suo studio, mentre l'accompagnava violentemente alla porta provocandole una contusione. La sesta sezione penale ha infatti spiegato che "la condotta di chi, trovandosi nell'altrui abitazione, si rifiuta di ottemperare alla volontà espressa dal titolare dello "jus excludendi", va appezzata come comportamento, suscettibile di valutazione a sensi del capoverso dell'art. 614 cod. pen., e la contestuale reazione dell'avente diritto, ricorrendo le condizioni, ben può essere scriminata ai sensi dell'art. 51 o 52 cod. pen. Da ciò il naturale corollario che le lesioni, derivate dall'azione posta in essere dal titolare dello "jus prohibendi", nella affermazione pragmatica del suo diritto contestato, in danno della persona destinataria dell'esercizio concreto del diritto di esclusione, possono essere del pari scriminate, oppure inquadrabili nella residuale previsione dell'art. 55 cod. pen. sotto il profilo dell'eccesso colposo. Né la circostanza che il luogo tutelato è uno "studio professionale" fa ad esso perdere la qualità di luogo non parto indiscriminatamente al pubblico, e neppure priva il professionista stesso del diritto di escludere dall'ingresso dei propri locali - o di invitare ad allontanarsene - le persone che egli ritenga non ammettere, per qualunque motivo non contrario alla legge (Cass. pen. sez. 5879/1997 Rv. 206905 ).

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