Configurabili i reati di violenza privata e violazione di domicilio a carico di chi si intrattiene nello studio legale con minacce e atteggiamenti intimidatori

di Lucia Izzo - Lo studio legale è equiparabile a luogo di privata dimora, non essendo aperto indiscriminatamente al pubblico; pertanto, possono configurarsi reati quali quelli di violazione di domicilio (ex art. 614 c.p.) e di violenza privata (ex art. 610 c.p.) anche nell'ipotesi in cui l'agente si intrattenga, con minacce e atteggiamenti intimidatori all'interno del suddetto studio legale.

La vicenda

Lo ha precisato la Corte di Cassazione, quinta sezione penale, nella sentenza n. 5797/2018 (qui sotto allegata) pronunciandosi sul ricorso di un avvocato condannato per i reati, uniti dal vincolo della continuazione, di violazione di domicilio e violenza privata.


Questi, infatti, si era intrattenuto all'interno dello studio legale di una collega contro la sua espressa volontà e aveva tentato di costringerla a ricevere una missiva e ad apporvi la sua firma per ricevuta, minacciando di non andar via dallo studio, sino all'avvenuto adempimento, ma non riusciva nel proprio intento per cause indipendenti dalla sua volontà.


Il giudice a quo riteneva fondata l'affermazione di responsabilità dell'imputato, sussistendo i presupposti di entrambi i reati contestati, in considerazione dell'inclusione dello studio legale nella nozione di domicilio e della riconducibilità al delitto di violenza privata degli atti posti in essere al fine di coartare la volontà della parte lesa.

Cassazione: lo studio legale è equiparabile a luogo di privata dimora

Nonostante la Cassazione annulli la sentenza impugnata senza rinvio per essere il reato estinto per prescrizione, i giudici del Palazzaccio si pronunciano comunque sul merito della vicenda.


In particolare, gli Ermellini si pronunciano sulle censure afferenti, in parte, alla configurabilità o meno delle ipotesi criminose, relative alla violazione di domicilio, inclusiva di uno ius excludendi, e al tentativo di violenza privata, considerati l'elemento oggettivo e soggettivo delle fattispecie criminose.


Secondo la difesa, infatti, nel caso in esame non vi sarebbe stato in capo al titolare un legittimo "ius excludendi", indispensabile per la ravvisabilità della violazione dell'art. 614 c.p., posto che l'imputato doveva ritirare dei documenti consortili e il luogo in questione era, per l'appunto, un ufficio dell'amministrazione del consorzio, individuato quale luogo di custodia e di ritiro dei documenti in questione.


Al riguardo, precisa il Collegio, va tuttavia considerato l'orientamento giurisprudenziale di legittimità, secondo il quale lo studio professionale è equiparabile a una privata dimora, stante la mancata apertura indiscriminata al pubblico (SS.UU., n. 31345/2017).


Ne consegue la correttezza della motivazione svolta dai giudici di merito nel caso di specie, ancorchè connotato dall'ubicazione, presso lo studio legale in questione, della sede di un consorzio.


Parimenti, va posta in evidenza la congruità e completezza della motivazione, contenuta nel provvedimento impugnato, circa la ricorrenza dei reati, sopra indicati, con riferimento al lasso di tempo nel quale si protrasse l'azione dell'imputato e alle modalità di induzione poste in essere da quest'ultimo.


Tuttavia, i giudici della Cassazione evidenziano come i reati di cui è causa si siano estinti per intervenuta prescrizione, ragion per cui occorre procedere all'annullamento della sentenza impugnata.


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