Per il Consiglio Nazionale Forense, l'istanza al giudice che allude ad una profonda sfiducia nella magistratura e nella giustizia ha rilievo deontologico

Rilievo deontologico alludere a sfiducia nella magistratura

"La violazione dell'art. 53 cdf, che impone al professionista di mantenere con il giudice un rapporto improntato alla dignità ed al rispetto della persona del giudicante e del suo operato, si configura anche nell'utilizzo di espressioni sconvenienti in quanto dirette consapevolmente ad insinuare nei confronti del magistrato il sospetto di illiceità ovvero la violazione del dovere di imparzialità nell'esercizio delle funzioni. La tutela del diritto di difesa critica, il cui esercizio non può travalicare i limiti della correttezza e del rispetto della funzione, non può tradursi, ai fini dell'applicazione della relativa "scriminante", in una facoltà di offendere, dovendo in tutti gli atti ed in tutte le condotte processuali rispettarsi il dovere di correttezza, anche attraverso le forme espressive utilizzate". Questo quanto affermato dal Consiglio Nazionale Forense nella sentenza n. 57/2023 (sotto allegata).

Nella vicenda, l'avvocato aveva richiesto l'anticipazione di una udienza chiosando l'istanza con la frase "Si confida nella Giustizia (se ne esiste ancora un barlume!)". Veniva sanzionato dal CDD con la sospensione dall'esercizio della professione per la durata di due mesi, per cui ricorreva al CNF.

Il Consiglio ritiene, in particolare nelle espressioni usate dal professionista, evidente la violazione dell'art. 19 del NCDF secondo cui "L'avvocato deve mantenere nei confronti dei colleghi e delle Istituzioni forensi un comportamento ispirato a correttezza e lealtà". Difatti, afferma, "il diritto di critica nei confronti di qualsiasi provvedimento giudiziario costituisce facoltà inalienabile del difensore, ma tale diritto deve essere sempre esercitato nei limiti del rispetto della funzione giudicante, riconosciuta dall'ordinamento con norme di rango costituzionale nell'interesse pubblico, con pari dignità rispetto alla funzione della difesa. Anzi, proprio la giusta pretesa di vedere riconosciuta a tutti i livelli una pari dignità dell'avvocato rispetto al magistrato impone, nei reciproci rapporti, un approccio improntato sempre allo stile e al decoro, oltre che, ove possibile, all'eleganza, mai al linguaggio offensivo o anche al mero dileggio". E, d'altronde, prosegue il CNF, "La libertà di manifestare la propria opinione critica sulle Istituzioni forensi trova un limite invalicabile nei doveri di lealtà, correttezza e rispetto nei confronti dell'Ordine Forense e dell'Avvocatura in generale.

Integra, pertanto, violazione deontologica la diffusione sui social network di un pensiero critico che trasmodi e si manifesti con espressioni deplorevoli o con accostamenti che rechino disonore all'Avvocatura e alle Istituzioni forensi in generale". Per il Consiglio, sussiste anche "la violazione del divietò di uso di uso di espressioni offensive o sconvenienti di cui all'art 52 n. 1 del NCDF poiché l'espressione oggettivamente offensiva riveste rilievo deontologico 'di per sé', cioè a prescindere dalla veridicità dei fatti che hanno dato luogo alla presentazione dell'esposto". Infine, "appare violata anche la regola deontologica di cui all'art 53 c.1, dato che le espressioni usate dall'avvocato sono oggettivamente irrispettose ed anche la, asserita, pacchiana erroneità di un provvedimento giurisdizionale non è sufficiente a derogare al divieto di usare espressioni sconvenienti ed offensive in sede di sua critica o gravame".

Per cui il ricorso è rigettato, ma il CNF, alla luce di una valutazione complessiva dei fatti, ritiene congruo comminare la sanzione disciplinare della censura.

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