Costituisce pilastro basilare ed insostituibile di uno Stato democratico la separazione dei suoi fondamentali poteri: esecutivo (governo), legislativo (parlamento) e giudiziario (magistratura)

L'asservimento della Magistratura

Costituisce pilastro basilare ed insostituibile di uno Stato democratico la separazione dei suoi fondamentali poteri: esecutivo (governo), legislativo (parlamento) e giudiziario (magistratura).
In un sistema di regole, è garantita l'effettiva uguaglianza dei cittadini allorquando vi è qualcuno che può costringere tutti ad osservarle, senza distinzione di censo, posizione istituzionale, od altra condizione di potere.
Questo qualcuno, in uno Stato democratico, è il Magistrato al quale, affinché possa svolgere le sue delicatissime funzioni, è vitale assicurare la massima autonomia dall'influenza di qualunque potere.
Ove il Magistrato sottostasse ad una qualsivoglia entità dominante (economica, politica o religiosa) verrebbe a perdere, nei confronti di questa, quella libertà d'agire che rappresenta la garanzia essenziale dell'eguaglianza nell'applicazione del diritto. Nello stesso tempo, questa entità acquisirebbe un pericoloso status di impunità di fronte alla legge.

La democrazia si basa sul principio che è il popolo nel suo insieme a prendere le decisioni che riguardano il comune interesse. Con la divisione dei poteri è stato ideato un sistema che mantiene l'integrità e l'indipendenza della magistratura

, equilibrando le funzioni legislativa ed esecutiva, così da attribuire potenzialmente ad ogni cittadino la stessa responsabilità e gli stessi diritti.
Una Magistratura indipendente costituisce per il cittadino garanzia primaria ed essenziale di equità e di tutela di fronte al potere economico e politico. Nessun potente deve poter restare impunito, né prevaricare i diritti dei più deboli.
Questa distinzione dei poteri deve tradursi, sul piano pratico, in una autonomia reciproca che consente vicendevole controllo, e che, quanto più è rigida e radicata, tanto maggiormente garantisce il cittadino contro gli abusi di qualunque potere, consentendogli una effettiva difesa dei propri diritti, non solo nei processi contro l'autorità pubblica, ma contro qualunque sua indiretta deviazione di fatto, (che attiene anche all'ipotesi - ben nota a chi ha vissuto passate esperienze politiche dittatoriali - di persecuzioni specifiche mediante la Magistratura).
Per maggiore chiarezza, è opportuno sottolineare che la Magistratura non è un organo dell'amministrazione statale: i Magistrati non sono dei funzionari dello Stato.
Al pari degli altri poteri dello Stato, essi rispondono del loro operato solo al popolo e non alle strutture amministrative.

La Costituzione italiana, secondo un tracciato universalmente diffuso nelle Costituzioni democratiche, esplicita in modo chiaro e netto tale separazione, stabilendo altresì, quale rafforzamento e conferma di tale autonomia, che la Magistratura deve essere retta da un proprio organo di governo: il Consiglio Superiore della Magistratura.

In queste condizioni, già che si concepisca l'esistenza di un "Ministro della Giustizia", appare in un certo senso come una contraddizione in termini, poiché le uniche funzioni che gli altri poteri statali possono svolgere al riguardo (senza violare, direttamente o indirettamente, la stabilita indipendenza) sono soltanto quelle di fornire aule e mezzi operativi alla Magistratura, nonché pagare i relativi stipendi.
Il Ministro della Giustizia, non a caso chiamato anche "Guardasigilli", per la sua funzione di servizio originaria, è un reperto storico, un ricordo dell'epoca nella quale il Monarca assoluto, detentore di tutti i poteri pubblici, amministrava anche la Giustizia.
Naturalmente, però, l'autonomia dei Giudici, che attribuisce loro la possibilità di sanzionare gli errori e le prevaricazioni degli esponenti istituzionali, ha sempre dato fastidio al potere politico e ciò tanto maggiormente quanto più ampia era l'area di illegalità nella quale esso propendeva a sconfinare.
Il grado e l'effettività di questa indipendenza, perciò, rappresenta di fatto la cartina al tornasole della correttezza e democraticità di uno Stato (e del suo livello di corruzione interna).

In Italia, come abbiamo visto, il Parlamento è stato di fatto idealmente esautorato con il sistema del "premio": l'attribuzione della maggioranza assoluta alla coalizione elettorale vincente le elezioni.
Tolto così di mezzo il Parlamento, per avere le mani completamente libere, ed agire con il massimo arbitrio, la classe politica cerca da tempo ogni mezzo per asservire la Magistratura.

Con lo sguardo a tale obiettivo, si percepisce il significato di alcune recenti innovazioni, prima delle quali l'occupazione politica dell'organo che governa la Magistratura, il Consiglio Superiore.
Come è noto i magistrati emettono le loro sentenze "in nome del popolo" (articolo 101 della Costituzione italiana). E ciò significa per l'appunto, come abbiamo già sottolineato, che debbono rendere conto del loro operato direttamente al popolo e non ad organi dello Stato.
Ed è in base a tale principio che la Magistratura è retta dal Consiglio Superiore della Magistratura che deve essere "espresso" cioè eletto, da un "ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere" (art. 104 Cost.).

Questa norma è stata violata e calpestata.
Con legge approvata dallo pseudo-parlamento attuale, sono stati introdotti nel Consiglio Superiore dei membri politici, cioè non solo estranei alla Magistratura, ma addirittura appartenenti ad un potere statale antitetico e contrapposto. Si è determinato così un inaccettabile conflitto funzionale.
Una iniziativa assolutamente illegittima in quanto contrasta insanabilmente con il testo istituzionale che sancisce l'autonomia del potere giudiziario.
Il controllo della legalità ne viene irrimediabilmente compromesso.

Inoltre, poiché, per le votazioni del Consiglio Superiore, è stato scorrettamente imposto un numero legale, (nell'aula devono essere presenti almeno cinque, su otto consiglieri "laici", cioè nominati dal Parlamento), è sufficiente che i membri politici escano dall'aula delle votazioni per impedire il funzionamento dell'organo di "autogoverno" (che tale, evidentemente, non è più).
Così è avvenuto il 14 luglio 2005 in occasione della discussione di un parere circa la norma "anti-Caselli" una disposizione di legge ad personam ideata per impedire che il Magistrato in questione potesse diventare Capo della Procura Antimafia.
Ciò significa, semplicemente, che questo organo è stato posto nella condizione di non poter assumere alcuna decisione che dispiaccia al governo.
In pratica, l'esecutivo si è messo in grado di controllare e bloccare le eventuali decisioni sgradite del CSM. Una sorta di diritto di veto che viola clamorosamente la autonomia del Consiglio garantita dalla Costituzione.
Il Consiglio, in tal modo, non può espletare quella che è la sua funzione fondamentale: garantire che tutti, compreso il potere politico, rispettino la legge.
Una fondamentale tutela per il cittadino contro gli abusi (non infrequenti né di poco conto) degli esponenti istituzionali, è stata cancellata.
Se si adotta lo stesso criterio in base al quale dei politici sono stati inseriti nel Consiglio Superiore, i Magistrati potrebbero pretendere di entrare nel governo e nel Parlamento.
Si è creato uno stravolgimento totale dei principi costituzionali. (1)

Anche sul piano del mero buon senso, è completamente aberrante imporre un "numero legale", cioè un quantitativo fisso obbligatorio di presenti per ciascuna delle (ormai) due componenti (magistrati e politici), in un organismo che deve decidere a maggioranza, cioè sulla base della somma di pareri individuali ed indipendenti.
In tema, non è da sottovalutare un altro aspetto, che attiene al concetto stesso di "organo collegiale".
Appare infatti inconcepibile un collegio nel quale un certo gruppo di componenti abbia la costante prospettiva di rimanere, per tutto il tempo della partecipazione all'organo, sistematicamente escluso dalla formazione delle decisioni.
Inoltre, con detta configurazione, il Collegio in questione viene privato del titolo che lo qualifica come tale. In altri termini, viene ad essere formato da due gruppi aventi ognuno diversa "ragione associativa": sarebbe come inserire un gruppetto di pasticceri nel Comitato Direttivo di un'associazione di pescatori.

Che la cosa possa dispiacere o meno a qualcuno, resta il fatto che è cardine essenziale della effettiva autonomia del Magistrato, oltre alla totale inamovibilità (che evita il possibile ricatto della minaccia di continui spostamenti di sede), l' assoluto automatismo sia della progressione in carriera sia della retribuzione, sulla base della sola anzianità.

In dipendenza della cennata esigenza di autonomia, è fondamentale che il Giudice, nelle promozioni, sia svincolato completamente da qualsiasi nota di "merito" o da altri fattori legati a valutazioni esterne.
E' ovvio, comunque, che questo metodo può, di fatto, premiare inetti, fannulloni ed incapaci, (anche se altri specifici correttivi, come eventuali verifiche interne di produttività, possono essere posti allo studio, per ovviare a tale inconveniente), ma questo è il prezzo necessario da pagare per disporre di Giudici totalmente indipendenti (non a caso, sono comunque previsti più gradi di giudizio per consentire la correzione degli eventuali errori). Diversamente operando, si rende il Magistrato ricattabile, e perciò non più libero.
Non vi è dubbio che esistono problemi connessi alla efficienza, alla responsabilità, alla serietà ed all'impegno dei Giudici, ma questi debbono essere affrontati e risolti dallo specifico Organo di governo.
Ben consapevole di tutto ciò, la politica vuole appositamente introdurre, per ogni Giudice, un bollettino di merito annuale, una pagellina che scoraggi il Magistrato scomodo, o con velleità di indipendenza, e lo faccia riflettere sulla necessità di sfamare la famiglia.
Le così dette "note informative" costituiscono un ben collaudato espediente, che è tipico soprattutto delle organizzazioni autoritario-burocratiche (esattamente il contrario di ciò che dovrebbe essere la Magistratura), per tenere sotto pressione il personale con la costante minaccia implicita di pesanti ricadute che verrebbero a pesare sul normale sviluppo della carriera e, perciò, sulla entità dello stipendio percepito.
Esse consentono di immagazzinare una serie di evidenze formali (che necessariamente riflettono la "cultura" dei vertici della struttura), utili a fornire sostegno all'orientamento (positivo come negativo), che si è deciso di dare alla carriera del soggetto interessato.
Queste "note" rappresentano, cioè, un apparato mistificatorio, una coperta atta a nascondere le mani, che è propria di una mentalità gestionale improntata all'arbitrio, sottratta alla trasparenza ed ai vincoli del confronto.
E' un sistema normalmente integrato da due strumenti, atti a rafforzare sinergicamente le "note informative": un corpo di ispettori, con funzioni di giannizzeri e con l'immagine (adulterata e fasulla) di imparziali osservatori e dalla previsione della possibilità di un procedimento di ricorso, contro le note stesse, reso peraltro preventivamente inefficace con idonei meccanismi, formali o sostanziali.
Particolari scuole di Magistratura, necessarie per accedere al ruolo, verranno ancora istituite per garantire, fin dall'origine, la selezione degli elementi caratterialmente ed ideologicamente più disponibili ad "allinearsi", escludendo così subito i soggetti che appaiono "inaffidabili". Le "note caratteristiche" redatte a conclusione della scuola, accompagneranno ogni candidato, come un timbro indelebile, per tutta la sua carriera.

Terzo intervento, di rilevanza sovversiva non minore dei precedenti, è la separazione delle carriere (o delle funzioni) fra Giudice e Pubblico Ministero.
Tale provvedimento ha lo scopo di coinvolgere quest'ultimo nella sfera della responsabilità politica e quindi di renderlo dipendente dal potere esecutivo.
Il principio per il quale il Pubblico Ministero deve provenire dalla esperienza del Giudice e fruire delle stesse garanzie di indipendenza, è nato dopo le traumatiche esperienze totalitarie del ventennio fascista.
Il Pubblico Ministero, per custodire la sua libertà ed autonomia di giudizio, deve portare dentro di sé la cultura della giurisdizione, non quella inquisitoria del poliziotto.
In altri termini, deve custodire e maturare una cultura che gli consenta un approccio equilibrato e ricettivo della realtà sociale.
Nella logica processuale, poi, non può esistere un ruolo intermedio tra ordine giudiziario e potere esecutivo.
Nella questione della separatezza è insita quella dell'obbligatorietà dell'azione penale, sancita anche questa dalla Costituzione.
Obbligatorietà significa che il Pubblico Ministero, avuta notizia di un reato, è obbligato ad aprire, in ogni caso, l'azione penale, quali che siano i personaggi coinvolti, a garanzia imparziale dei diritti di tutti i cittadini. Egli è caricato di un dovere preciso nei confronti della collettività.
Costituisce invece specifico obiettivo dei cennati programmi di asservimento della Magistratura, introdurre la regola per la quale spetta comunque al governo fissare gli indirizzi operativi dell'ufficio del Pubblico Ministero ed indicare i reati che questi dovrà perseguire.
Inutile aggiungere che si tratterà, ovviamente, dei reati non commessi dai membri della coalizione governativa e dai suoi sostenitori.
Scompare, per il Magistrato, il dovere verso la collettività, sostituito da un obbligo di obbedienza verso il governo.
Preoccupa altresì fortemente un'altra parte della "riforma", il cui progetto è però già delineato. Si tratta della trasformazione del Pubblico Ministero in semplice organo requirente, su materiali raccolti dalla polizia.
Gli verrà tolto, cioè, il potere di svolgere le indagini, che diverranno compito esclusivo della polizia.
Ben diversa è la tutela della giustizia allorquando a raccogliere la notitia criminis è un organo autonomo come è ora il Pubblico Ministero, che lavora senza rendere conto a dei superiori, e non invece, come avverrà, con un funzionario di polizia, che dipende da una catena gerarchica al cui vertice è il Ministro, cioè un organo politico, il quale si premurerà dove e come deve indagare, indicandogli i reati politicamente graditi e quelli che invece non lo sono.

Merita ricordare che le citate innovazioni costituiscono, ad avviso dei giudici di Cassazione, "regressioni all'assetto pre-costituzionale, per le quali non appare possibile ipotizzare gli obbiettivi che si prefiggono. L'unico connotato evidente della riforma è quello di essere contro la Magistratura".
Al di là dell'evidente prudenza verbale gli "obbiettivi" sono in realtà piuttosto evidenti: assicurare al potere esecutivo l'opportunità di condizionare i Magistrati, riconducendo il loro lavoro nell'area dell' influenza politica; sostituire una Magistratura autonoma con una piramide gerarchizzata e verticistica, facilmente governabile (anche con il semplice controllo dei meccanismi di promozione dei Capi degli Uffici Giudiziari).
In questo obbiettivo di abolire l'autonomia del Giudice, e la sua specifica cultura di indipendenza, rientra l'eliminazione del Pretore, una figura illustratasi in passato proprio per la libertà di giudizio e l'impegno per la legalità.

Contestualmente ai cennati provvedimenti contro la Magistratura, è da richiamare l'attenzione su una certa attività governativa, che chiarisce e completa il quadro degli intendimenti incostituzionali del governo.
Sono state infatti varate riforme processuali stravaganti ed antigiuridiche, che minano l'integrità dell'ordinamento giuridico nel suo insieme e che hanno per evidente scopo di bloccare o impedire procedimenti aperti contro personaggi politici (o soggetti alla politica graditi).(2)
Eventi, questi, che confermano, ove occorresse, il completo asservimento dell'organo legislativo agli interessi delle persone che siedono al governo (e ai loro "amici") e la sua completa attuale inadeguatezza a svolgere le funzioni di regolatore della vita della collettività.
Particolarmente grave che si sia intervenuti a frapporre ostacoli ed impedimenti all'attività di indagine della Magistratura con dei provvedimenti limitativi delle intercettazioni telefoniche ed ambientali.
Ogni provvedimento diretto a ridurre, condizionare, limitare, contenere, regolare, l'attività del Magistrato è un passo compiuto nella direzione della eliminazione o compressione dei diritti civili individuali dei cittadini.


(1) E' perciò del tutto al di fuori delle righe che il Ministro della Giustizia possa disporre ispezioni agli Uffici Giudiziari (spesso con scoperte finalità intimidatorie), ovvero chiedere la loro rimozione.
(2) Particolarmente significative in proposito due leggi. La prima di esse dispone che, per poter raccogliere ed utilizzare in Italia le testimonianze di residenti all'estero, lo Stato di residenza debba disporre delle stesse regole che vigono in Italia. La cosa è perfino infantile: è sufficiente infatti rendere del tutto bizzarre ed anomale le regole italiane (come, in effetti, si è poi fatto), per impedire indagini su traffici illeciti, di danaro od altro, condotti all'estero. Infatti, nessun Paese può essere disponibile a rinunciare alla propria sovranità per seguire tali originalità e ciò rende impossibile il ricorso a testimoni stranieri.
Non solo: è anche stabilito, a maggior impedimento del normale corso della giustizia, che una eventuale prova pervenuta dall'estero al giudice di una città, non sia utilizzabile da un suo collega di una città diversa. Quest'ultimo, per poterlo fare, deve chiedere una ridicola autorizzazione allo stato estero.
Questi impedimenti legislativi alle rogatorie internazionali vennero approvati proprio mentre si indagava, per rogatoria, su conti esteri della società Fininvest appartenente all'allora Capo del governo.
La seconda legge consente a chiunque, senza che sussistano fondamenti concreti ed obbiettivi, di contestare l'obiettività dei giudici che di lui si stanno occupando, avanzando il "legittimo" sospetto e così chiedendo il trasferimento del processo in altra sede. Una eccezione rinnovabile fino alla prescrizione del reato.

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