La Cassazione delinea il profilo del reato di falso in atto pubblico in relazione alla alterazione dei dati contenuti nelle cartelle cliniche

di Lucia Izzo - La cartella clinica di un paziente redatta da un medico di un ospedale pubblico costituisce un atto pubblico, attestante il decorso della malattia: pertanto, ogni alterazione o modifica di tale documento integra il reato di falso in atto pubblico. L'elemento soggettivo di tale illecito si rintraccia nel dolo generico, ovvero la consapevolezza dell'immutatio veri, il quale andrà dimostrato facendo ricorso a tutta una serie di indicatori.

La vicenda

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Lo ha rammentato la Corte di Cassazione, quinta sezione penale, nella sentenza n. 55385/2018 (qui sotto allegata) pronunciandosi sul ricorso di un medico, in servizio presso un ospedale, condannato per i reati di falso, materiale ed ideologico, in atto pubblico.


Nel dettaglio, al sanitario era contestato di aver contraffatto alcune cartelle cliniche, annotando l'effettuazione di visite in reparto recanti data successiva rispetto alla constatazione effettuata da altro sanitario; anche le successive annotazioni, con cui l'uomo rettificava le prevedenti ritenendo che l'incongruità della data fosse un mero errore materiale, venivano ritenute ideologicamente false.


In Cassazione, l'imputato ritiene che l'ipotesi sia un "falso innocuo". essendo l'incongrua attestazione della data (peraltro inserita in un documento incompleto) riferibile ad un mero errore materiale, rilevabile all'evidenza da chiunque avesse consultato le cartelle cliniche

Falso in atto pubblico alterare la cartella clinica

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Gli Ermellini rammentano che, secondo il consolidato orientamento di legittimità, la cartella clinica redatta da un medico di un ospedale pubblico è caratterizzata dalla produttività di effetti incidenti su situazioni giuridiche soggettive di rilevanza pubblicistica, nonché dalla documentazione di attività compiute dal pubblico ufficiale che ne assume la paternità.


Trattasi di atto pubblico che esplica la funzione di diario del decorso della malattia e di altri eventi clinici rilevanti, sicché i fatti devono esservi annotati contestualmente al loro verificarsi.


Di conseguenza, tutte le modifiche, le aggiunte, le alterazioni e le cancellazioni integrano falsità in atto pubblico, punibili in quanto tali, non assumendo rilevanza l'intento che muove l'agente, atteso che le fattispecie delineate in materia dal vigente codice sono connotate dal dolo generico e non dal dolo specifico.


Le attestazioni rese dal pubblico ufficiale mediante annotazione su cartella clinica e sui documenti che vi accedono (quali il diario clinico e la scheda di dimissioni ospedaliere) debbono, dunque, rispondere ai criteri di veridicità del contenuto rappresentativo, di completezza delle informazioni, di immediatezza della redazione rispetto all'atto medico descritto e di continuità delle annotazioni, in quanto finalizzate ad asseverare, con fede privilegiata, non solo la verbalizzazione dell'atto medico, ma anche la successione cronologica degli interventi, delle diagnosi, della prognosi e delle prescrizioni.


In particolare, integra il reato di falso materiale in atto pubblico l'alterazione di una cartella clinica mediante l'aggiunta di una annotazione, ancorché vera, in un contesto cronologico successivo e, pertanto, diverso da quello reale.


Né, a tal fine, rileva che il soggetto agisca per ristabilire la verità effettuale, in quanto la cartella clinica acquista carattere definitivo in relazione a ogni singola annotazione ed esce dalla sfera di disponibilità del suo autore nel momento stesso in cui la singola annotazione viene registrata, trattandosi di atto avente funzione di "diario" della malattia e di altri fatti clinici rilevanti, la cui annotazione deve avvenire contestualmente al loro verificarsi.

Cartella clinica alterata: va dimostrato il dolo generico

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Sotto il versante soggettivo, ai fini dell'integrazione del delitto di falsità, materiale o ideologica, in atto pubblico, è sufficiente il dolo generico, consistente nella consapevolezza della "immutatio veri", non essendo, invece, richiesto l'"animus nocendi vel decipiendi".


Non si tratta, tuttavia, di "dolus in re ipsa", in quanto l'elemento soggettivo deve essere rigorosamente provato, dovendosi escludere il reato quando il falso derivi da una semplice leggerezza ovvero da una negligenza dell'agente, poiché il sistema vigente non incrimina il falso documentale colposo.


Nella ricostruzione dell'elemento soggettivo l'autorità giudiziaria è tenuta a confrontarsi con una serie di indicatori ad esempio: la lontananza della condotta tenuta da quella doverosa; la personalità e le pregresse esperienze dell'agente; la durata e la ripetizione dell'azione; il comportamento successivo al fatto; il fine della condotta e la compatibilità con esso delle conseguenze collaterali e così via.


Il dolo va escluso, invece, tutte le volte che la falsità risulti essere oltre o contro la volontà dell'agente, come quando risulti dovuta soltanto ad un mero errore percettivo. In thema di prova dell'elemento psicologico del reato, il giudice deve operare la ponderata valutazione di specifici elementi sintomatici onde sostenere e giustificare la rigorosa dimostrazione che l'agente si sia confrontato con la specifica categoria di evento che si è verificata nella fattispecie concreta, aderendo psicologicamente ad essa.

Falso in atto pubblico: non basta valorizzare un mero convincimento soggettivo

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Si ritiene affetta da vizio di motivazione la decisione del giudice di merito che, fondandosi apparentemente su una massima di esperienza, valorizzi in realtà un mero convincimento soggettivo non acquisito al comune sentire.


Il ricorso a mero convincimento soggettivo, erroneamente qualificato come massima di esperienza integra, difatti, vizio di motivazione laddove non rappresenti, con adeguato grado di rappresentazione logico-inferenziale, gli indici sintomatici dell'elemento soggettivo del reato con ragionevole certezza.


Nel caso di specie, la Cassazione ritiene che la Corte territoriale non abbia espresso, in modo logicamente congruente e completo, né coerente in diritto, le ragioni giuridicamente significative che hanno determinato l'accertamento del dolo e fatto ritenere ragionevole l'affermazione di responsabilità.


Appare sicuramente incontestata (ed incontestabile) la falsità materiale della indicazione della data nelle annotazioni a firma del dottore sulle cartelle cliniche, ma per ritenere sussistente il dolo, ovvero la consapevolezza e volontà del mendacio, non è sufficiente la ripetitività delle false attestazioni (su tutte le cartelle cliniche dei pazienti ricoverati). Il medico, infatti, ha svolto le visite che le annotazioni attestano e ne risulta incongrua la sola datazione.


Per i giudici di legittimità, la ripetitività e serialità dell'erronea indicazione non esprime, con adeguato grado di credibilità razionale, la consapevolezza della "immutatio veri", appartenendo invece al comune dato esperienziale che una iniziale percezione inesatta della data induce essa stessa alla ripetitività della sua indicazione, finché l'autore non se ne accorga, restando altrimenti nella perdurante convinzione che il giorno in corso corrisponda con quello erroneamente ritenuto.


Pertanto nel ricondurre a massima di esperienza un dato che assume, nella consolidata prassi, valenza diversa ed anzi opposta, la corte territoriale ha errato nel giudizio inferenziale, eleggendo un proprio convincimento a dato d'esperienza invece contrastato dall'id quod plerumque accidit, inidoneo ad escludere plausibilmente ogni spiegazione alternativa che invalidi l'ipotesi ritenuta all'apparenza più verosimile. La sentenza impugnata va dunque annullata con rinvio affinché la Corte d'Appello proceda a nuovo esame.

Scarica pdf Cass., V civ., sent. 55385/2018

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