Interessante sentenza della Corte d'Appello di Bologna sull'illegittimità della risoluzione, ope legis, del contratto di franchising
Quando può risolversi legittimamente il contratto di franchising? Sul quesito, si è espressa la Corte d'Appello di Bologna, nella sentenza n. 344/2018, della Corte d'Appello di Bologna.

La vicenda

Nella vicenda, l'attore chiede l'accertamento dell'illegittimità della risoluzione, ope legis, del contratto

di franchising. Inoltre chiede anche il risarcimento dei danni subiti e il riconoscimento dell'abuso di posizione dominante posto in essere dalla convenuta.

La legge 129/2004, all'articolo 1, definisce il franchising «il contratto, comunque denominato, fra due soggetti giuridici, economicamente e giuridicamente indipendenti, in base al quale una parte concede la disponibilità all'altra, verso corrispettivo, di un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale relativi a marchi, denominazioni commerciali, insegne, modelli di utilità, disegni, diritti d'autore, know how, brevetti, assistenza o consulenza tecnica e commerciale, inserendo l'affiliato in un sistema costituito da una pluralità di affiliati distribuiti sul territorio, allo scopo di commercializzare determinati beni o servizi».

Quale motivo ha condotto la convenuta a risolvere il contratto con l'attrice?

Non solo viene rilevato un deterioramento della situazione di credito del franchisee, ma anche un mancato raggiungimento degli obiettivi prefissati.

Risoluzione contratto di franchising, la decisione

Per ciò che concerne il primo punto è necessario addentrarsi in un'analisi tecnica: già da principio il giudice rileva un primo disallineamento nell'equilibrio finanziario poiché nel brevissimo periodo i debiti, costituenti oltre il 50% del totale dei debiti sociali, hanno una copertura pari a circa la metà. Inoltre la società in questione è notevolmente esposta, per una cifra molto alta, con più istituti di credito, sembrando molto arduo che ella possa far fronte alle scadenze programmate; le allegazioni probatorie della parte attrice sono troppo generiche e non appare plausibile che la società possa far fronte ai notevoli impegni assunti attraverso la sua peculiare attività.

Non va scordato, infine, che la valutazione della CTU è stata posta in essere sulla documentazione di bilancio presentata dalla stessa società attrice, non potendosi quindi considerare plausibili, o sensati, millantati occultamenti di comodo.

Per quanto concerne la seconda questione, è importante tenere a mente che il contratto di franchising, per sua natura, è un contratto destinato a produrre effetto in un certo periodo di tempo, non esaurendosi in una singola operazione di scambio ma realizzando una collaborazione continuata, se non una vera e propria integrazione tra le parti, diretta a realizzare un sistema di distribuzione decentralizzato ed uniforme in cui, a fronte del privilegio di usare la formula commerciale del franchisor, il franchisee si impegna a sostenere notevoli costi e a rispettare una serie di obblighi.

Nel contratto del caso di specie, l'obiettivo era incardinato su due obblighi reciproci delle parti: da un lato il franchisor si impegnava ad effettuare studi e ricerche di mercato su un determinato territorio, che era lo stesso in cui il franchisee si impegnava a vendere un numero di moto, sopra i 500 c.c. di cilindrata, determinato su base annuale.

Il franchisee, inoltre, aveva la possibilità di contestare, entro un termine prestabilito, la pianificazione del franchisor, situazione mai sollevata.

Alla luce della discrasia tra gli standard nazionali e quelli territoriali del franchisee di riferimento, il franchisor ha considerato non raggiunti gli obiettivi prefissati.

Rivelando veraci le allegazioni della convenuta, e giudicando fumose le accuse di posizione dominante, concretizzatesi in overstock e cambiamento delle modalità di pagamento, il giudice ha rigettato la domanda di parte attrice.

Scarica la sentenza n. 344/2018 della Corte d'Appello di Bologna

Dott. Michel Simion

Giuridica.net


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