Prime riflessioni dopo la decisione della Corte di Cassazione sull'obbligatorietà del professionista dipendente PA alla gestione separata Inps e conseguenze per gli avvocati

Avv. Maurizio Giordano - La sentenza n. 30345/2017 della Cassazione (sotto allegata) sembra inspiegabilmente porsi in contrasto con le decisioni prese precedentemente dalla medesima Corte, in particolare con la sentenza n. 13218/2008 la quale precisava che la Gestione separata costituisce "gestione residuale", destinata a coprire sotto il profilo previdenziale, attività per le quali non sia prevista l'iscrizione in appositi albi né alcuna forma di previdenza mentre "per i professionisti iscritti all'albo il soggetto deputato alla gestione della tutela previdenziale obbligatoria viene scelto dall'organo professionale competente e non è certo la gestione separata presso l'INPS di cui alla legge n. 335 del 1995 art. 2 comma 26 da cui i professionisti iscritti negli albi sono esclusi.

E sembra porsi in contrasto anche con la recente sentenza della stessa Cassazione n. 11161/2017 in cui respingendo il ricorso proposto da un ingegnere volto ad accertare l'insussistenza dell'obbligo contributivo nei confronti di Inarcassa (Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza per gli Ingegneri ed Architetti) relativamente all'attività di perito assicurativo riteneva determinanti le conoscenze e le competenze intellettuali del professionista ai fini dell'individuazione dell'obbligo contributivo nei confronti di Inarcassa chiarendo che a determinare tale obbligo nei confronti della propria Cassa previdenziale privata concorrono anche le attività professionali non tipiche che siano comunque riconducibili alla professione.

Obbligo d'iscrizione gestione separata Inps: vale anche per gli avvocati?

Ma è davvero così? E soprattutto è applicabile questa sentenza anche al caso degli avvocati nei confronti dei quali in questi anni l'Inps ha proceduto alla iscrizione d'ufficio alla gestione separata ed ha contestato il mancato pagamento dei contributi alla medesima?

La risposta è no. Questi sinteticamente i motivi.

Nessuna analogia con gli avvocati

1) La decisione n. 30345/2017 riguarda un caso particolare che non ha alcuna analogia con quello contestato agli avvocati in quanto verte su un divieto di iscrizione alla Cassa di Previdenza Privata (Inarcassa) previsto dal Regolamento stesso a causa di una incompatibilità professionale determinata dal fatto che il ricorrente parallelamente alla attività autonoma di architetto svolgeva anche attività ulteriore come dipendente pubblico.

Ora, tali incompatibilità in presenza di attività di lavoro subordinato(privato o pubblico) sono previste dai Regolamenti di quasi tutte le Casse di Previdenza Private, compreso quella forense (art. 3 Regio Decreto Legge n. 1578/1933 nonché art. 22 Legge n. 576/80), a tutela della dignità e dell'autonomia degli iscritti che in tal caso hanno il divieto espresso di iscriversi alla Cassa (pur avendo l'obbligo di versare il contributo integrativo nel caso di esercizio professionale). Pertanto il disposto della suddetta sentenza sarebbe applicabile direttamente al caso di un avvocato che parallelamente all'attività legale svolgesse anche un attività di lavoro subordinato o svolgesse la sua professione nell'ambito di un rapporto di impiego. La reale motivazione della decisione, abbozzata genericamente dalla Cassazione nella funzione universale residuale della gestione separata per tutte le attività non soggette a contribuzione, va individuata nel intenzione di porre rimedio ad una situazione di ingiustizia sostanziale o di iniquità di trattamento nei confronti degli iscritti agli stessi ordini professionali. Infatti, con questo escamotage, chi esercitasse una attività professionale per cui è prevista l'iscrizione ad un ordine, ove svolgesse contemporaneamente un impiego privato o pubblico, potrebbe esercitare tranquillamente la sua professione senza pagare i contributi determinando una situazione di concorrenza sleale nei confronti di tutti gli altri iscritti che invece versano regolarmente i contributi alla loro Cassa di appartenenza. Per ovviare a ciò la Cassazione è stata costretta ad interpretare il disposto dell'art. 18, comma 12, d.l. n. 98/2011 (conv. con I. n. 111/2011) -il quale, nell'interpretare autenticamente la disposizione dell'art. 2, comma 26, I. n. 335/1995, aveva precisato che "erano tenuti all'iscrizione (alla gestione separata Inps) soggetti che svolgono attività (per professione abituale) il cui esercizio non sia soggetto all'iscrizione ad un apposito albo professionale ovvero non soggette al versamento contributivo agli Enti di cui all'art.11 (Casse private)"- scindendo le due proposizioni prima e dopo la parola "ovvero" in due concetti distinti in cui il secondo ricomprende il primo. Ossia, anche coloro che esercitano attività subordinate all'iscrizione ad un albo -ove tali attività non siano soggette al versamento contributivo alla Cassa di appartenenza- sono tenuti alla iscrizione alla gestione separata Inps. A nulla vale la dimostrazione di aver pagato un contributo integrativo il quale non ha alcuna finalità previdenziale né di svolgere già altra attività per cui si pagano i contributi all'Inps o ad altra Cassa perché in tal modo si verrebbe a creare una zona di esenzione previdenziale.

Ma in che modo tutto questo riguarda il caso degli avvocati? Ad uno sguardo superficiale potrebbe sembrare adattarsi a meraviglia ma a ben guardare non ha con esso alcun punto in comune in quanto riguarda una situazione del tutto diversa.

Quali sono infatti queste attività "non soggette a contribuzione alle Casse Previdenziali Private"?

Tali attività devono ritenersi esclusivamente quelle per cui la Cassa Privata avrebbe astrattamente competenza ma è previsto dal Regolamento della Cassa stessa un espresso divieto di iscrizione che realizza di fatto un diniego di competenza. L'espressione "attività non soggette all'iscrizione/versamento" seppure simile a quella "soggetti non tenuti all'iscrizione" non deve esserne ritenuta sinonimo dovendosi intendere con la prima solo le attività non soggette alla competenza (per la presenza di un espresso divieto regolamentare per cui la Cassa stessa si spoglia della sua competenza) mentre la seconda attiene alla libera facoltà dell'iscritto all'albo in presenza di determinate condizioni espressamente individuate dal regolamento della Cassa di appartenenza nel pieno esercizio della sua autonomia "la quale rimane sempre l'unica titolare della competenza previdenziale sull'iscritto all'albo"(come prevedevano la Legge n. 6/52 e la Legge n. 576/80 in cui si stabiliva che non fossero tenuti ad iscriversi alla cassa Forense gli avvocati con un reddito inferiore a una soglia minima). Una differenza sottile ma sostanziale.

Nel caso specifico degli avvocati non si tratta pertanto di attività non soggette (escluso il caso del'avvocato che eserciti la sua professione pur esercitando allo stesso tempo ulteriore attività come dipendente oppure svolga la sua professione nell'ambito di un rapporto di impiego - art.22 legge 576/80) essendo una facoltà concessa dalla stessa Cassa Forense (prima della riforma operata dalla Legge n. 247/12 che ha reso obbligatoria l'iscrizione alla cassa Forense per tutti) proprio al fine di agevolare i giovani avvocati iscritti all'albo che non esercitavano la professione di avvocato in modo abituale (ovvero dichiarassero un reddito inferiore ai limiti prefisti di anno in anno dalla Cassa Forense per la presunzione di esercizio di professione non abituale) evitandogli di pagare il gravoso contributo soggettivo. Ciò però non valeva ad escludere la competenza della Cassa Forense sugli iscritti all'albo in quanto era la Cassa stessa nella sua autonomia (in grado di derogare anche a leggi dello Stato come sancito anche recentemente dalla Corte Costituzionale con Ordinanza n. 254/2016) che esonerava temporaneamente gli avvocati con soglie minime di reddito (e che pertanto non svolgevano l'attività in modo abituale e continuativo) dall'iscrizione e dal pagamento del contributo soggettivo minimo. D'altro canto lo stesso Regolamento attuativo dell'art. 21 della Legge n. 247/12 di riforma forense attualmente in vigore prevede all'art. 7 "contributi minimi e agevolazioni per i primi anni di iscrizione". In particolare il comma 2 prevede non più l'esonero totale del contributo soggettivo minimo come in precedenza ma il suo dimezzamento per i primi 6 anni di attività, mentre il comma 3 prevede l'esonero dal pagamento del contributo integrativo minimo per i primi 5 anni di iscrizione all'albo ed il suo dimezzamento per i successivi 4 anni. E l'art. 9 dello stesso Regolamento prevede "ulteriori agevolazioni per i percettori di reddito al di sotto dei parametri" in cui si prevede che per i primi 8 anni di iscrizione alla Cassa i percettori di un reddito inferiore a 10.300 euro potranno versare un contributo soggettivo minimo obbligatorio pari alla metà del dovuto. Ciò perfettamente in conformità con l'art.2 della Legge n. 6/52 istitutiva della Cassa Forense e dell'art. 22 della Legge n. 576/80 il quale prevedeva l'iscrizione obbligatoria alla Cassa Forense solo per gli avvocati che esercitassero la professione con carattere di continuità mentre l'iscrizione doveva ritenersi facoltativa per coloro che non raggiungessero il reddito minimo imponibile. Il Comitato dei Delegati della Cassa avrebbe provveduto ogni cinque anni ad adeguare, se necessario, i criteri per accertare l'esercizio della continuativo della professione ai sensi dell'art. 2, primo comma, della L. 22 luglio 1975, n. 319. Lo stesso articolo aggiungeva poi che in ogni caso non era ammessa l'iscrizione per gli avvocati che esercitassero la professione nell'ambito di un pubblico impiego. Ma allora di che cosa stiamo parlando? Se la Cassa Forense nel pieno esercizio della sua autonomia anche ai sensi del Nuovo Regolamento di attuazione della Riforma Forense ex Legge 247/12 può legittimamente esonerare dal pagamento del contributo integrativo minimo e dimezzare il contributo soggettivo minimo senza far sorgere alcun dubbio circa l'obbligo di versamento contributivo alla Gestione Separata Inps, perchè mai non avrebbe potuto esonerare gli appartenenti all'ordine dal versamento contributivo in presenza di particolari circostanze reddituali senza per questo spogliarsi della sua competenza e far sorgere automaticamente l'obbligo di iscrizione alla gestione separata?

Sarebbe evidentemente irragionevole sostenere il contrario dal momento che l'intento della Cassa Forense era quello di agevolare i nuovi iscritti all'ordine con un reddito inferiore alle soglie minime per la prova dell'esercizio continuativo della professione individuate dalla Cassa stessa. Agevolazione che si sarebbe immediatamente vanificata ove vi fosse stato un obbligo di gestione alla gestione separata. Né peraltro mai alcuna comunicazione o avviso circa tale obbligo è pervenuto da parte della Cassa Forense ai suoi iscritti (che in tal modo avrebbero ben potuto optare per la più conveniente iscrizione alla Cassa Forense) fino alla riforma del 2012 che ha introdotto l'obbligo di iscrizione e alle prime contestazioni da parte dell'Inps.

Tali considerazioni circa l'insussistenza di un obbligo di iscrizione alla gestione separata sono dirimenti e prescindono sia dal versamento di un contributo integrativo alla Cassa di Previdenza sia dalla natura previdenziale o meno di quest'ultimo.

Gestione separata applicabile a lavoro autonomo per professione abituale

2) Nella sua decisione la Cassazione ribadisce comunque un punto fermo ovvero che la Legge n.335/95 istitutiva della Gestione separata si applica solo a coloro che svolgono attività di lavoro autonomo per professione abituale anconchè non esclusiva. Ora, è evidente che il caso contestato dall'Inps agli avvocati non rientri in questa fattispecie dal momento riguarda redditi percepiti nell'esercizio non abituale né continuativo di una professione per cui è prevista l'iscrizione ad un albo. Che tale sia la situazione si ricava dai Regolamenti e dalla normativa prima citata ove la non obbligatorietà dell'iscrizione era prevista proprio in assenza di esercizio continuativo e abituale della professione stabilendo che fosse compito del Comitato dei Delegati della Cassa determinare i criteri per l'accertamento dell'esercizio continuativo della professione da adeguarsi periodicamente. Tali criteri sono stati individuati fino alla riforma del 2012 dal medesimo Comitato dei Delegati in due soglie reddituali minime, una ai fini Irpef e l'altra ai fini Iva, determinate di anno in anno al superamento delle quali scattava l'obbligo di iscrizione. Per l'anno 2009 ad esempio il reddito minimo ai fini irpef era di euro 9.000 mentre il reddito minimo ai fini iva era di euro 13.500. La dichiarazione di un reddito inferiore ad entrambe le soglie formava prova presuntiva nell'esercizio non continuativo della professione, escludendo di conseguenza ogni questione circa qualunque obbligo di iscrizione alla Gestione Separata Inps.

Avvocati, gestione separata solo per autonomi al superamento dei 5mila euro

3) Anche ove si volesse continuare sostenere la tesi dell'Inps ovvero l'assoggettabilità alla gestione separata dei redditi prodotti dagli avvocati inferiori alle soglie minime previste per la prova dell'esercizio continuativo della professione (e conseguentemente la non competenza della Cassa Forense), si trascura un fatto fondamentale.

Lo svolgimento di un'attività di lavoro autonomo in maniera non abituale e continuativa deve considerarsi, per definizione, una attività "occasionale". Stante l'abrogazione da parte del Jobs Act delle previgenti disposizioni in materia di lavoro occasionale, per la sua definizione occorre fare riferimento alla disposizione generale dell'art. 2222 del codice civile relativa al contratto d'opera che si caratterizza per l'autonomia della prestazione senza vincolo di subordinazione e senza il requisito della continuità.

Ora, l'art. 44, c. 2 del D.L. 269/03, convertito in L. 326/03, ha disposto l'iscrizione alla Gestione Separata a decorrere gennaio 2004 dei lavoratori autonomi occasionali, ma solo per redditi fiscalmente imponibili superiori a 5000 euro. L'obbligo contributivo pertanto scatta solo al superamento dei €. 5.000 di reddito che costituiscono una fascia di esenzione. Infatti, i contributi sono dovuti esclusivamente sulla quota di reddito eccedente i €. 5.000. Pertanto, i contributi richiesti dall'Inps agli avvocati (e le relative sanzioni) andrebbero debitamente ricalcolati sulla quota dichiarata eccedente tale soglia nell'anno contestato.

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Avv. Maurizio Giordano

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Cassazione, sentenza n. 30345/2017

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