L'art. 4 dello Statuto dei Lavoratori (Legge n. 300/1970), come modificato dal Jobs Act (d.lgs. n. 151/2015, art. 23) ha stabilito il divieto dell'uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori.
La punibilità ai sensi di quest'ultima norma, si desume dal combinato disposto degli artt. 114 e 171 del d.lgs. 196 del 2003: il datore di lavoro, salvo che il fatto non costituisca più grave reato, rischia un'ammenda oppure l'arresto da 15 giorni ad un anno.
Reato di pericolo, anche a telecamere spente
Per la giurisprudenza, il reato del datore di lavoro che installi impianti e apparecchiature audiovisive senza il necessario accordo rappresenta un reato di pericolo, essendo diretto a salvaguardare le possibili lesioni della riservatezza dei lavoratori.
Pertanto, ai fini della sua integrazione è
sufficiente la mera predisposizione di apparecchiature idonee a controllare a distanza l'attività dei lavoratori, anche non funzionanti o mai utilizzati, poichè per la punibilità
non è richiesta la messa in funzione o il concreto utilizzo delle attrezzature (per approfondimenti:
Installare telecamere che spiano i dipendenti resta reato anche se spente)
Niente telecamere in azienda, neppure con il consenso dei lavoratori
L'accordo con i sindacati, dunque, è
sempre indispensabile e non se ne può fare a meno
neppure se sia stato acquisito il consenso scritto dei dipendenti. Tanto si desume da un recente orientamento della Corte di
Cassazione, che ha ribaltato il precedente che aveva ritenuto non integrato il reato laddove il datore avesse acquisito il consenso di tutti i lavoratori.
Nella
sentenza numero 22148/2017, il Collegio ha ritenuto che il
consenso espresso dai lavoratori, scritto od orale,
non può mai scriminare la condotta del datore di lavoro che abbia installato gli impianti di videosorveglianza senza rispettare l'apposita normativa (per approfondimenti:
Telecamere in azienda: reato anche con il consenso dei lavoratori).
Ciò in quanto la norma impone di tutelare non gli interessi di carattere individuale, ma collettivo e superindividuale. In altre parole,"la condotta datoriale, che pretermette l'interlocuzione con la rappresentanze sindacali unitarie o aziendali procedendo all'installazione degli impianti dai quali possa derivare un controllo a distanza dei lavoratori, produce l'oggettiva lesione degli interessi collettivi di cui le rappresentanze sindacali sono portatrici".
Risultanze delle telecamere per accertare i reati
In ambito penale, tuttavia, la stessa
Corte di Cassazione, nella sentenza
n. 33567/2016, ha confermato la condanna per due
dipendenti fannulloni, indagati per
truffa aggravata e continuata nei confronti del Comune, alle dipendenze del quale avevano prestato servizio con le mansioni di usciere.
I due, allontanatisi dal posto di lavoro timbrando il cartellino segnatempo in orari di entrata e uscita diversi da quelli effettivi, avevano affermato la non utilizzabilità delle captazioni di immagini audiovisive effettuate dalla polizia giudiziaria.
Sul punto, i giudici hanno affermato che, in tema di apparecchiature di controllo dalle quali derivi la possibilità di verificare a distanza l'attività dei lavoratori, le garanzie procedurali previste dall'art. 4, seconda comma, dello Statuto dei lavoratori non trovano applicazione quando si procede all'accertamento di fatti che costituiscono reato. Tali garanzie riguardano solo l'utilizzabilità delle risultanze delle apparecchiature di controllo nei rapporti interni, di diritto privato, tra datore di lavoro e lavoratore.
La loro eventuale inosservanza, precisano gli Ermellini,
non assume pertanto alcun rilievo nell'attività di repressione di fatti costituenti reato, al cui accertamento corrisponde sempre
l'interesse pubblico alla
tutela del bene penalmente protetto, anche qualora sia possibile identificare la
persona offesa nel datore di lavoro (per approfondimenti:
Cassazione: lecite le telecamere per i lavoratori fannulloni).