La Cassazione ha confermato il diniego di riconoscere l'assegno a una donna gravemente obesa

di Lucia Izzo - L'obesità è una patologia che colpisce numerosi italiani, spesso arrivando al punto di rendere le incombenze quotidiane difficili, se non quasi impossibili, da svolgere in tranquillità, oltre a determinare numerose diverse complicante alla propria salute. Tuttavia, nonostante la grave obesità e la raggiunta soglia dei 144 kg, tale condizione non è stata ritenuta sufficiente a riconoscere l'assegno di invalidità e la cui valutazione di gravità non è sindacabile in Cassazione.


Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, sezione lavoro, nella sentenza n. 17644/2016 (qui sotto allegata), confermando la decisione della Corte d'Appello sul corretto rifiuto opposto dall'INPS alla richiesta di una donna per il riconoscimento del diritto a percepire l'assegno di invalidità.


Decisiva, sia in primo che in secondo grado, la C.T.U. espletata: secondo il consulente, la donna, soggetto gravemente obeso con complicanze artrosiche in ipertensione arteriosa ed esiti di intervento chirurgico per tunnel carpale, oltre a disturbo depressivo in un blando trattamento farmacologico, era affetta da riduzione della capacità lavorativa in misura del 71%. Un dato non ritenuto sufficiente per accogliere la richiesta.


Ciononostante, in sede di legittimità, la ricorrente sostiene che il consulente tecnico abbia commesso un errore riconoscendo un'invalidità del 71%, facendo riferimento a un indice di massa corporea tra 35 e 40, mentre l'indice riferibile alla ricorrente, del peso di 144 kg al momento della visita del primo c.t.u., sarebbe stato pari a 51.  II c.t.u. avrebbe, secondo la difesa, dovuto quindi applicare per analogia un'altra voce di tabella,che prevede per l'anchilosi dei rachide totale un'invalidità del 75%.


Ancoa, il consulente avrebbe dovuto ricorrere ad una valutazione complessiva dei danni, posto che le modalità d'uso della nuova tabella di invalidità approvata con il D.m. del 5/2/1992 nella prima parte dispongono che quando l'infermità non è tabellata, in ragione della sua natura e della sua gravità, è possibile valutarne il grado con criterio analogico rispetto a quella tabella.


Gli Ermellini, nel respingere il ricorso, evidenziano che la Corte territoriale si è attenuta al principio (ai sensi della sentenza n, 16251/2004 della Suprema Corte) secondo il quale la tabella contenuta nel d.m. 5 febbraio 1992 include l'obesità con complicanze artrosi nella fascia di invalidità dal 31 al 40%, quando vi sia un indice di massa corporea compreso tra 35 e 40, sicché quando l'indice di massa corporea risulti superiore, occorre un'indagine diretta ad acclarare l'effettivo grado di invalidità, svincolata dai limiti specificati dalla richiamata tabella.


A tale principio la Corte territoriale si è attenuta, laddove ha richiamato e condiviso le conclusioni dei consulente tecnico, che aveva riconosciuto una percentuale invalidante del 71%, superiore rispetto a quella massima del 40%, così svincolandosi dalle previsioni della tabella proprio in considerazione della maggiore gravità della patologia riscontrata rispetto a quella ivi considerata


La ricorrente, chiedendo che la propria malattia sia classificata in una voce di tabella riferita a malattia diversa, ma assimilabile alla propria per gravità, non formula in sostanza una critica relativa all'errata applicazione delle tabelle, ma alla valutazione della gravità della propria patologia come ritenuta dal c.t.u., chiedendone una valutazione superiore. La denuncia si risolve quindi nella mera prospettazione di un sindacato di merito sulla valutazione, inammissibile in sede di legittimità.

Cass., sezione lavoro, sent. n. 17644/2016

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