La prova liberatoria spetta sulla datrice di lavoro che deve adottare le misure idonee a preservare l'integrità psico-fisica del lavoratore

di Lucia Izzo - L'azienda deve risarcire la famiglia del lavoratore deceduto per colpa dell'amianto, anche se all'epoca del rapporto lavorativo non erano state ancora introdotte specifiche norme per il trattamento dei materiali, quali quelle contenute nel d.lgs. 15 agosto 1991, n. 277, successivamente abrogato dal d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81. 

Spetta al datore di lavoro dover fornire la prova liberatoria dimostrando di aver adottato le opportune misure di prevenzione atte a preservare l'integrità psico-fisica del lavoratore nel luogo di lavoro. 


Con la sentenza n. 22710/2015 (qui sotto allegata) la Corte di Cassazione, sezione lavoro, accoglie il ricorso proposto dagli eredi di un uomo deceduto per mesotelioma pleurico, contratto nell'esercizio dell'attività lavorativa svolta dal 1955 al 1982.

Contestano i ricorrenti la decisione della Corte d'Appello che ha escluso l'elemento soggettivo necessario per configurare la responsabilità della datrice di lavoro: per i giudici di merito, all'epoca in cui l'uomo aveva contratto il male, non era ancora nota l'insidiosità dell'amianto e la sua idoneità a innescare malattie.

Per gli Ermellini invece, il richiamo al "fatto notorio" non può esimere la società.


La pericolosità della lavorazione dell'amianto era nota da epoca ben anteriore all'inizio del rapporto de quo: già il R.D. 14 giugno 1909, n. 442 includeva la filatura e tessitura dell'amianto tra i lavori insalubri o pericolosi,  vietandolo a donne e fanciulli e richiedendo speciali cautele per quanto riguarda il pronto allontanamento del pulviscolo; anche il R.D. 14 aprile 1927, n. 530 conteneva disposizioni relative all'areazione dei luoghi di lavoro, mentre l'asbestosi, malattia provocata da inalazione da amianto, era conosciuta fin sai primi del '900 e fu inserita tra le malattie professionali nel 1943.


Pertanto, all'epoca dei fatti di cui è causa, si imponeva l'adozione di misure idonee a ridurre il rischio connaturale all'impiego di materiale contenente amianto in relazione alla norma di chiusura di cui all'art. 2087 c.c., che impone all'imprenditore l'obbligo di adottare nel'esercizio delle impresa tutte quelle misure che, secondo la particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, si rendano necessarie a tutelare la loro integrità fisica.


Nel caso in esame, rileva anche quanto disposto dal D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303, art. 21 che stabilisce che nei lavori che danno normalmente luogo alla formazione di polvere di qualunque specie, il datore di lavoro è tenuto ad adottare provvedimenti atti ad impedire o ridurre, per quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione nell'ambiente di lavoro, soggiungendo che le misure da adottare a tal fine devono tenere conto della natura delle polveri e della loro concentrazione, avendo quindi caratteristiche adeguate alla pericolosità.


Lo sostanze nocive, come disposto dallo stesso D.P.R., non devono entrare a contatto con i lavoratori e accumularsi negli ambienti, per cui tra le altre cose è necessario predisporre locali per le lavorazioni insalubri e utilizzare di aspiratori.


L'onere della prova, nel caso di specie, gravava dunque sulla datrice di lavoro che avrebbe dovuto prestare prova liberatoria circa l'adozione di cautele previste  in via generale e specifica dalle suddette norme, essendo incontestato il nesso causale tra l'evento e l'attività svolta dal lavoratore in ambienti a contatto con l'amianto.


L'insussistenza dell'elemento psicologico a cui è pervenuta la Corte territoriale non può essere condivisa: trattandosi di responsabilità contrattuale per omessa adozione, ex art. 2087 c.c., delle opportune misure di prevenzione, spetta all'azienda dimostrare il contrario, essendo irrilevante che il rapporto di lavoro si sia svolto in epoca antecedente all'introduzione di specifiche norme sul trattamento dei materiali contenenti amianti.

La causa torna alla Corte d'Appello per definire nel merito la controversia.

Cass., sezione lavoro, sent. 22710/2015

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