IL DIRITTO ALLA SALUTE è un diritto inviolabile di rango costituzionale.
Avv. Francesco Pandolfi - Cassazione e Magistrature Superiori
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IL DIRITTO ALLA SALUTE è un diritto inviolabile di rango costituzionale.


Vale la pena leggere i pregevoli contenuti di questa sentenza, in quanto fissa il fondamentale e "orizzontale" principio in forza del quale, stante l'inderogabilità dell'obbligo di protezione della salute umana, la diligente sterilizzazione dell'ambiente ospedaliero, della sala operatoria, dei luoghi di degenza e delle attrezzature e strumentazioni chirurgiche adoperate costituisce obbligo precipuo della struttura sanitaria, che è tenuta ad assicurare ambienti salubri ed attrezzature conformi ai parametri della scienza e della tecnica medica.


La sentenza n. 45828 del 26.11.2014 del Tribunale di Palermo sezione 1 civile si presenta molto interessante per la tipologia di fattispecie affrontata; infatti il Magistrato si cimenta nell'esaminare una domanda domanda che ascrive l'eziologia del danno alla salute -patito successivamente ad un intervento chirurgico di posizionamento di artroprotesi al ginocchio-, ad una patologia infettiva di origine nosocomiale e dunque, in ultima analisi, alle carenze igieniche della struttura nella quale è stato eseguito l'intervento de quo, senza adombrare alcuna imperizia del personale medico coinvolto nell'esecuzione di detto trattamento.

Il giudizio, instaurato con atto di citazione ritualmente notificato da (...) nei confronti della Casa di Cure (...), ha per oggetto il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali patiti in dipendenza di una patologia infettiva di origine batterica "di origine nosocomiale" insorta successivamente ad un intervento chirurgico di artroprotesi al ginocchio sinistro eseguito presso l'anzidetta struttura.  

Costituitasi in giudizio, Casa di Cure ha preliminarmente contestato la fondatezza della domanda attorea, sollecitandone il rigetto; ha, inoltre, chiesto ed ottenuto l'autorizzazione alla chiamata in causa del terzo Re. S.p.A. (spiegando nei confronti di detta compagnia assicurativa domanda di garanzia per l'ipotesi di una eventuale condanna), nonché dei terzi (...) indicati quali i medici che materialmente avevano eseguito l'intervento chirurgico del ed evocati in giudizio con azione di rivalsa sul presupposto della loro responsabilità in ordine alla causazione dei danni lamentati dall'attore.

Costituitosi in giudizio, (...) ha negato qualsivoglia responsabilità correlata all'esecuzione dell'intervento de quo ed ottenuto, a sua volta, l'autorizzazione alla chiamata in garanzia di Assicurazioni S.p.A. (oggi (...) Assicurazione).

Re. Assicurazioni si è costituita in giudizio eccependo l'inapplicabilità alla fattispecie in esame della garanzia assicurativa derivante dalla polizza n. 8xxxxx avente per oggetto, in virtù di apposita clausola contrattuale, unicamente le richieste di risarcimento avanzata nel relativo periodo di durata (e non già di fatto dannosi verificatisi in detto periodo.

Nel corso del giudizio l'attore è deceduto; si sono quindi costituiti gli eredi dell'attore originario.

Il processo è stato istruito con l'acquisizione di documentazione, l'assunzione di prove testimoniali e l'espletamento di una consulenza tecnica d'ufficio (affidata ai CC.TT.UU. (...) depositata il 9 febbraio 2012.

Alla luce delle risultanze processuali, la domanda risarcitoria originariamente avanzata da quale, va ricordato, in atto di citazione ha ascritto l'eziologia del danno alla salute patito successivamente all'intervento chirurgico di posizionamento di artroprotesi al ginocchio sinistro eseguito il 9xxxx, ad una patologia infettiva di origine nosocomiale e dunque, in ultima analisi, alle carenze igieniche della struttura nella quale è stato eseguito l'intervento de quo, senza neppure adombrare alcuna imperizia del personale medico a vario titolo coinvolto nell'esecuzione di detto trattamento) deve ritenersi fondata e meritevole di accoglimento entro i limiti infra specificati.

In punto di diritto, va osservato che, alla stregua del costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità, la responsabilità dell'ente ospedaliero per i danni provocati dal medico suo dipendente al paziente per errori nella terapia o nell'intervento chirurgico ha natura contrattuale di tipo professionale, trovando fondamento in un contratto autonomo ed atipico, definito come contratto di spedalità o contratto di assistenza sanitaria (cfr. Cass. civ., n. 8826/07; Cass. civ. n. 1698/06; Cass. civ., n. 571/05; Cass. civ., n. 9556/02; Cass. Civ., n. 12233/98; Cass. Civ., n. 7336/98; Cass. Civ., n. 4152/95; Cass. Civ., n. 5939/93).

Anche l'obbligazione del medico dipendente dall'ente ospedaliero nei confronti del paziente, ancorché non fondata sul contratto, ma sul "contatto sociale", ha natura contrattuale (cfr. Cass. Civ., n. 589/99; Cass. Civ., n. 10297/04; Cass. Civ., n. 9085/06).

L'anzidetta qualificazione, costituente l'approdo di un percorso di elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, va oggi ribadita pur alla luce della previsione recata dall'art. 3, comma 1, della legge n. 189/12 (c.d. legge Balduzzi), a mente del quale "l'esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l'obbligo di citi all'art. 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo".

Ed invero, si come recentemente chiarito dal Supremo Collegio, detta disposizione "poiché omette di precisare in che termini si riferisca all'esercente la professione sanitaria e concerne nel suo primo inciso solo la responsabilità penale, comporta che la norma dell'inciso successivo, quando dice die resta comunque fermo l'obbligo di cui all'art. 2043 c.c. dev'essere interpretata, conforme al principio per cui in lege aquilia et levissima culpa levit, nel senso che il legislatore si è soltanto preoccupato di escludere l'irrilevanza della colpa lieve anche in ambito di responsabilità extracontrattuale civilistica. Deve, viceversa, escludersi che con detto inciso il legislatore abbia inteso esprimere un'opzione a favore di una qualificazione della responsabilità medica necessariamente come responsabilità extracontrattuale (.,.). Deve, pertanto, ribadirsi che alla norma nessun rilievo può attribuirsi che induca il superamento dell'orientamento tradizionale sulla responsabilità medica come responsabilità da contatto e sulle sue implicazioni (da ultimo riaffermate da Cass., n. 4792 del 2013)" (cfr. Cass. civ., ord. 17 aprile 2014, in motivazione).

Come è noto, la ricostruzione della responsabilità della struttura sanitaria e del medico in essa operante in termini di responsabilità contrattuale riverbera significativi effetti sia sotto il profilo della distribuzione dell'onere probatorio fra le parti, sia sul versante del criterio di valutazione della responsabilità del debitore inadempiente.

Per un verso, infatti, il creditore della prestazione sanitaria è tenuto a dimostrare la conclusione del rapporto contrattuale e l'inadempimento, mentre spetta al debitore provare che quest'ultimo è dipeso da fatto a lui non imputabile, secondo il principio sancito dall'art. 1218 c.c.

Segnatamente, il soggetto che assume di avere subito un danno dovuto a colpa professionale medica ha l'onere di provare la sussistenza del danno stesso, cioè la patologia da cui è affetto, il tipo di prestazione che ha ricevuto, il fatto che si tratti di una prestazione ordinaria o di routine, ed infine il nesso di causalità tra danno e prestazione del professionista; sussistendo la prova in giudizio dei suddetti elementi il medico (unitamente alla struttura ospedaliera di cui egli sia dipendente) è responsabile, ex art. 1218 c.c., dei danni subiti dal paziente, a meno che non provi di non essere incorso in colpa, sia lieve che grave, oppure, di avere dovuto fronteggiare una situazione straordinaria o di eccezionale difficoltà ed essere incorso semplicemente in colpa lieve per imperizia.

Con specifico riferimento alle ipotesi in cui l'eziologia del danno sia ricondotta alla contrazione di una patologia infettiva in ambiente ospedaliero (ed. "infezione nosocomiale"), in virtù dell'applicazione del suddetto criterio di riparto dell'onere probatorio graverà sulla struttura sanitaria convenuta, una volta che sia stato accertato - in termini di certezza ovvero di elevata probabilità logica - il nesso causale tra il lamentato pregiudizio e l'infezione de qua, l'onere di dimostrare di avere diligentemente adempiuto la "prestazione" offerta al paziente, anche sotto il profilo dell'adozione, ai fini della salvaguardia delle condizioni igieniche dei locali e della profilassi della strumentazione chirurgica eventualmente adoperata, di tutte le cautele prescritte dalle vigenti normative e delle leges artis onde scongiurare l'insorgenza di patologie infettive a carattere batterico; nonché della prestazione, ad opera del proprio personale medico, la prestazione del necessario e doveroso trattamento terapeutico successivo all'eventuale contrazione dell'infezione da parte del paziente.

Una volta acclarati gli eventuali profili di colpa ascrivibili al sanitario ovvero imputabili (sub specie di omessa adozione delle cautele preventive destinate a scongiurare il rischio di insorgenza di infezioni in ambiente ospedaliero) alla struttura sanitaria convenuta, l'attenzione va focalizzata sul secondo, imprescindibile polo della relazione causale sottesa all'azione risarcitoria, ossia il danno del quale viene invocato il ristoro.

Tanto premesso, nel caso di specie può ritenersi acclarato che:

il giorno 9xxxxxxl (...) fu sottoposto ad un intervento chirurgico di sostituzione totale del ginocchio sinistro con una protesi;

successivamente all'esecuzione di detto intervento intervenne un processo infettivo da Streptococco agalactiae;

il processo infettivo in questione provocò progressivamente una "distruzione tessutale ossea loco - regionale", rendendo necessaria l'esecuzione con tecnica artroscopica di numerosi trattamenti di toilette del ginocchio presso altre strutture e, infine, di un nuovo intervento chirurgico di asportazione della protesi infetta e di applicazione di altra protesi cementata.

Ciò posto, alla stregua della valutazione pressoché concorde dei due CC.TT.UU. nominati sul punto (esaurientemente motivata, immune da contraddizioni e vizi logici e, pertanto, condivisibile in questa sede), la patologia infettiva batterica da "Streptococco agalactiae" venne contratta da (...) durante i periodo di degenza dello stesso presso la Casa di Cure (...) (ai fini dell'esecuzione dell'intervento di protesizzazione del ginocchio sinistro) nel novembre del 2004.

La struttura sanitaria convenuta non ha adempiuto all'onere, sulla medesima gravante alla stregua dei principi generali richiamati supra, di dimostrare di avere adottato le cautele prescritte dalla vigente normativa in tema di preservazione delle condizioni igieniche dei locali destinati all'effettuazione degli interventi chirurgici ed al ricovero dei pazienti e di sterilizzazione e profilassi preventiva della strumentazione adoperata.

Difetta, dunque, qualsiasi elemento probatorio utile a dimostrare l'adozione, ad opera della Casa di Cure (...) misure preventive dirette a scongiurare la verificazione dell'infezione batterica post - operatoria mediante la profilassi del campo operatorio e la salvaguardia della salubrità dei luoghi di degenza.

Va, infatti, ricordato che la diligente sterilizzazione dell'ambiente ospedaliero, della sala operatoria, dei luoghi di degenza e delle attrezzature e strumentazioni chirurgiche adoperate costituisce obbligo precipuo della struttura sanitaria, che è tenuta, in virtù del contratto di spedalità, ad assicurare ambienti salubri ed attrezzature conformi ai parametri della scienza e della tecnica medica.

Orbene, secondo i principi in materia di onere probatorio sopra richiamati, incombeva alla struttura ospedaliera convenuta la prova dell'inesistenza di un inadempimento, ossia di avere disinfettato e sterilizzato con successo la sala operatoria e le attrezzature utilizzate, ovvero in alternativa la prova positiva dell'inesistenza del rapporto di causalità tra inadempimento e danno, in ragione della preesistenza dell'infezione al ricovero ospedaliero (che nel caso di specie può ragionevolmente escludersi sulla scorta delle considerazioni sul punto sopra svolte in tema di nesso causale).

Va, quindi, osservato che l'insorgenza della patologia infettiva de qua non si atteggia ad evento imprevedibile (costituendo al contrario, si come evidenziato dai CC.TT.UU., una delle "più temibili complicanze" con effetti iatrogeni dell'intervento di impianto di protesi articolare e comportando "spesso la necessità di ulteriori procedure chirurgiche quali la rimozione delle protesi, resezioni ossee, eventuali reimpianti" (verificatesi nel caso di specie); né, per ateo verso, essa può definirsi inevitabile, dovendosi osservare, in accordo con quanto sostenuto dai CC.TT.UU., che "le percentuali del verificarsi di una tale complicanza si sono progressivamente ridotte con i tempi, in rapporto alle migliori misure preventive ed al rigoroso rispetto dell'asepsi nell'ambiente operatorio: così, mentre per i primi impianti queste complicanze variavano secondo le principali casistiche dall'11% al 7%, esse si sono successivamente attestate intorno allo 0,5%" e, dunque, ad ipotesi assolutamente marginale (cfr. pp. 16 - 17 della relazione di consulenza, in atti).

Può, pertanto, ascriversi alla struttura sanitaria convenuta una diretta responsabilità in ordine alla causazione dell'infezione e, in ultima analisi, delle relative conseguenze pregiudizievoli delle quali è stato domandato il ristoro

con l'atto di citazione (a cominciare da quelle, di carattere non patrimoniale, direttamente incidenti sull'integrità psico - fisica di (...).

Infatti, la mancata dimostrazione della preesistenza dell'infezione nella persona del paziente, l'accertata riconducibilità eziologica dell'infezione ad un agente patogeno diffuso in ambito ospedaliero, in uno alla mancata dimostrazione dell'efficace sterilizzazione del campo operatorio, della strumentazione chirurgica adoperata e dei locali di degenza, inducono ad affermare che la Casa di Cure (...) non abbia esattamente adempiuto all'obbligo di porre a disposizione del paziente attrezzature idonee ad evitare l'insorgenza della complicanza infettiva (cfr. pp., 20 - 21 della relazione di consulenza, in atti: "il processo infettivo successivamente instauratosi in sede chirurgica è verosimilmente dovuto a difetti o carenze di carattere organizzativo all'interno della struttura ospedaliera e a possibili inadeguatezze concernenti le procedure di profilassi volte ad impedire o limitare le infezioni batteriche nosocomiali").

Acclarato, dunque, l'inadempimento contrattuale della struttura sanitaria convenuta, quest'ultima va condannata al risarcimento dei danni il cui ristoro è stato invocato in questa sede, entro i limiti e nella misura infra specificati.

(omissis ) ....la domanda di garanzia spiegata dalla convenuta Casa di Cure (...) nei confronti della Società Re. di Assicurazione va rigettata, essendo pacifico che la richiesta risarcitoria di (...) sia pervenuta all'anzidetta convenuta in epoca successiva alla scadenza delle polizze, non ricadendo dunque l'evento dannoso dedotto a fondamento di detta richiesta entro l'ambito temporale di applicazione della garanzia assicurativa.

Attesa l'acclarata insussistenza di specifici profili di colpa professionale imputabili ai componenti dell'equipe medica incaricata dell'esecuzione dell'intervento chirurgico di impianto di artroprotesi al ginocchio sinistro e dotati di efficienza causale in ordine all'insorgenza della patologia infettiva post - operatoria, devono, altresì, reputarsi infondate le domande di rivalsa avanzate dalla convenuta Casa di Cura (...) nei riguardi dei terzi chiamati (...).   

L'operato dei sanitari fu condotto con diligenza, prudenza e perizia sia per quanto riguarda la fase di diagnosi la fase di intervento e la fase di successiva terapia e la scelta del tipo di intervento chirurgico fu idonea nel caso in questione. Anche la modalità di esecuzione di tale intervento è da considerare adeguata e corretta. Pertanto non si ravvisano elementi di responsabilità all'equipe operatorie per le sequele infinite che poi si verificarono").

Ciò posto in ordine all'accertamento della responsabilità civile ascrivibile alla parte convenuta, occorre verificare la sussistenza delle diverse voci di danno il cui ristoro è stato invocato da (...) e, successivamente al decesso di quest'ultimo, avvenuto in corso di causa, da (...), costituitisi in prosecuzione del giudizio ai sensi dell'art. 302 c.p.c. nella qualità di eredi dell'originario attore.

Muovendo dalla considerazione dei profili di pregiudizio afferenti la sfera non patrimoniale, va tenuto conto del fatto che (...) in considerazione delle condizioni di salute pregresse ed antecedenti rispetto all'esecuzione dell'intervento chirurgico di artroprotesi, avrebbe verosimilmente patito, anche in presenza di un normale decorso postoperatorio, una permanente limitazione della propria integrità psico - fisica.

In questa sede dunque, si come correttamente rilevato dai CC.TT.UU., può essere accordato unicamente il ristoro del c.d. "maggior danno", ossia della menomazione a carattere permanente ulteriore e specificamente residuata "quale conseguenza dell'infezione post - chirurgica di origine ospedaliera, con necessità di reimpianto di protesi", che va quantificata nella misura del 15% (cfr. p. 21 della relazione di consulenza, in atti).

Pure va riconosciuto il ristoro dell'invalidità temporanea, protrattasi per un periodo ben più lungo di quello ordinariamente necessario per la convalescenza all'esito di un intervento di impianto di protesi articolare proprio in conseguenza dell'insorgenza dell'infezione batterica: detto periodo, alla stregua della motivata e condivisibile valutazione sul punto operata dai CC.TT.UU., è stato pari a complessivi 52 giorni di invalidità temporanea totale ed a complessivi 550 giorni di invalidità temporanea parziale correlata ai successivi interventi di pulitura della sede della protesi resi necessari dalla perdurante presenza dell'infezione ed ai relativi periodi di convalescenza (calcolata al 50% delle attitudini del soggetto per i primi 200 giorni ed al 10% per i successivi 350 giorni).

Non può essere riconosciuto alcun ristoro in relazione ad una menomazione dell'integrità psichica dell'attore (...) avendo i nominati CC.TT.UU. riscontrato in capo al medesimo, al di là di una comprensibile reazione emotiva rispetto agli eventi patiti, la sussistenza di una vera e propria patologia psichiatrica suscettibile di preciso ed obiettivo inquadramento clinico.  

Ora, per ciò che attiene alla liquidazione del pregiudizio, va osservato che, come precisato da quattro recenti sentenze emesse dalla Corte di Cassazione a sezioni unite (le nn. 26972, 26973, 26974 e 26975 del 2008), il danno biologico, quale lesione del diritto inviolabile alla salute (art. 32 Cost.), va ricondotto nell'alveo del danno non patrimoniale di cui all'art. 2059 c.c. e ha una portata tendenzialmente omnicomprensiva, confermata dalla definizione normativa adottata dal D.Lgs. 209/2005, recante il Codice delle assicurazioni private (il cui art. 139 statuisce che "per danno biologico si intende la lesione temporanea o permanente all'integrità psico - fisica della persona suscettibile di accertamento medico - legale che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico - relazionali della vita del danneggiato" indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito"), suscettibile di essere adottata in via generale, anche in campi diversi da quelli propri delle sedes materiae in cui è stata dettata, avendo il legislatore recepito sul punto i risultati, ormai generalmente acquisiti e condivisi, di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale.

(omissis) .... posto che il risarcimento del danno alla persona deve essere integrale, sarà compito del giudice quello di procedere ad un'adeguata personalizzazione del danno non patrimoniale.

Nella liquidazione, avente natura essenzialmente equitativa, di una tale voce di danno, questo giudice ritiene di prendere le mosse dal criterio, ormai consolidato in giurisprudenza, del cosiddetto "punto tabellare", in base al quale l'ammontare del danno viene calcolato in relazione all'età della parte lesa ed al grado di invalidità.

Al riguardo, va assunta come parametro di riferimento la tabella in uso presso il Tribunale di Milano recentemente valorizzate dal Supremo Collegio quale punto di riferimento a livello nazionale per la liquidazione del danno non patrimoniale ed elaborate in guisa da prevedere un incremento ponderato del "valore punto" di invalidità in relazione alle sofferenze ed ai turbamenti conseguenti alla traumatica esperienza subita, alle gravità delle lesioni riportate, alle intuitive ripercussioni delle stesse sulla sfera emotivo - relazionale del soggetto ed alla verosimile necessità di sottoporsi in futuro ad ulteriori trattamenti terapeutici e riabilitativi.

Per ciò che attiene alle modalità di liquidazione, va poi ricordato che il nominato C.T.U. ha quantificato in complessivi 15 punti percentuali il grado di riduzione dell'integrità fisica residuato in capo a (...) e specificamente ricollegabile, sul piano causale, alla patologia infettiva contratta in occasione dell'intervento chirurgico di protesizzazione del ginocchio sinistro (al netto, dunque, della condizione di invalidità permanente che sarebbe, comunque, inevitabilmente residuata in capo al paziente anche nell'ipotesi di normale decorso post - operatorio).

Pertanto, utilizzando il corrispondente valore - punto tabellare di Euro 3.508,19 (già comprensivo di un incremento percentuale ponderato elaborato in guisa da tenere conto della necessità di procedere al risarcimento del danno non patrimoniale inteso nella lata accezione sopra delineata e, dunque, suscettibile, nella prospettiva di una "personalizzazione" del risarcimento, di assicurare un adeguato ristoro anche del pregiudizio soggettivo di ordine emotivo correlato) e moltiplicandolo per il coefficiente (0,745) corrispondente all'età della persona danneggiata (52 anni) all'epoca della verificazione del danno (che può farsi coincidere con la data dell'esecuzione dell'intervento chirurgico in conseguenza del quale si è sviluppata la patologia infettiva, ossia con il 9 novembre 2004), si ottiene la somma di Euro 39.204,00.

In sintonia con le indicazioni contenute nelle tabelle ed al fine di garantire un'adeguata personalizzazione del risarcimento appare opportuno, in considerazione dei notevoli patimenti correlati alla necessità di sottoporsi ai numerosi interventi chirurgici documentati in atti e finalizzati ad emendare le conseguenze della patologia infettiva (culminati con la definitiva sostituzione della protesi originariamente impiantata) ed alle, presumibili ed intuibili, negative ripercussioni di detti eventi sulla sfera emotiva e relazionale del soggetto (nonché, vista la peculiare natura delle lesioni fisiche, all'incidenza negativa delle stesse sull'attitudine lavorativa generica del danneggiato) delle applicare su detta somma un ulteriore incremento percentuale del 25%, addivenendosi così all'importo complessivo di Euro 49.005,00, riconoscibile a titolo di ristoro del complessivo pregiudizio non patrimoniale spettante a (...).

Va, pure, accordato il ristoro del danno non patrimoniale patito dal (...) sub specie di invalidità temporanea, da quantificarsi, in conformità alla valutazione espressa dal C.T.U. e sopra richiamata ed alla stregua del valore di Euro 96,00 giornalieri previsto dalle Tabelle del Tribunale di Milano, ili complessivi Euro 17.952,00.

Ciò posto, nel caso di specie la circostanza che il soggetto leso sia deceduto nelle more del giudizio (peraltro per ragioni indipendenti dalla patologia dedotta quale danno risarcibile), riverbera significativi effetti sotto il profilo della liquidazione del danno non patrimoniale dallo stesso subito e del quale viene ora invocato il ristoro, iure successionis, dagli eredi (...).

Al riguardo va, infatti, osservato come in tema di risarcimento del datino non patrimoniale qualora, al momento della liquidazione del danno biologico, la persona offesa sia deceduta per una causa non ricollegabile alla menomazione risentita in conseguenza dell'illecito, alla valutazione probabilistica connessa con l'ipotetica durata della vita del soggetto danneggiato debba sostituirsi quella del concreto danno effettivamente prodottosi/cosicché l'ammontare del danno biologico il cui ristoro gli eredi del defunto domandano iure successionis va calcolato non con riferimento alla durata probabile della vita del defunto, ma alla sua durata effettiva, per quanto tenendo conto del fatto che nei primi tempi il patema d'animo è più intenso rispetto ai periodi successivi (in tal senso Cass. Civ., n. 28407/08; Cass. Civ., n. 19058/08).

In armonia con il condivisibile orientamento della Suprema Corte dianzi richiamato, dunque, qualora la morte non sia stata causata dalle lesioni, ma sia sopravvenuta per altra causa allorquando - come nel caso di specie - le lesioni si erano evolute in postumi invalidanti stabilizzati, la liquidazione del danno biologico da invalidità permanente deve seguire regole particolari, in quanto la durata della vita, in questo caso, non costituisce più un dato presunto, ma un dato reale: è possibile, così, sapere per quanto tempo il danneggiato ha dovuto convivere con la sua menomazione, con la conseguenza che il giudice deve tener conto non della vita media futura presumibile della vittima, ma della vita effettivamente vissuta (cfr. Cass. Civ., n. 5332/2003).

Da tale considerazione discende, quale logico corollario, che l'ammontare del danno non patrimoniale trasmissibile iure hereditatis dovrà essere calcolato non già in relazione all'aspettativa di vita media, bensì in relazione all'effettiva vita residua goduta: ciò in quanto ai fini della liquidazione dell'anzidetto pregiudizio, l'età in tanto assume rilevanza in quanto col suo crescere diminuisce l'aspettativa di vita, sicché è progressivamente inferiore il tempo per il quale il soggetto leso subirà le conseguenze non patrimoniali della lesione della sua integrità psicofisica.

In altri termini, come osservato dal Supremo Collegio, "quando la durata della vita futura cessa di essere un valore ancorato alla probabilità statistica e diventa un dato noto per essere il soggetto deceduto, allora il danno biologico (riconoscibile tutte le volte che la sopravvivenza sia durata per un tempo apprezzabile rispetto al momento delle lesioni) va correlato alla durata della vita effettiva, essendo lo stesso costituito dalle ripercussioni negative (di carattere non patrimoniale e diverse dalla mera sofferenza psichica) della permanente lesione della integrità psicofisica del soggetto per l'intera durata della sua vita residua" (così Cass. Civ., n. 22338/07).

Ciò posto, va osservato che il criterio di liquidazione tabellare dei danno da invalidità permanente dianzi richiamato risulta calibrato sulla presumibile durata della vita del danneggiato (il quale, all'epoca del sinistro, aveva 52 armi) e postula la proiezione del pregiudizio su una determinata aspettativa media di vita residua, mentre, nel caso di specie, (...), di fatto, sopportato i postumi invalidanti derivanti dalle lesioni dell'integrità fisica accertati dal C.T.U. sino alla data della morte (avvenuta il 18 febbraio 2013) e, dunque, per un periodo di tempo sensibilmente più ridotto (pari a circa otto anni e quattro mesi).

Il danno biologico da invalidità permanente andrà, dunque, ancorato al periodo di effettiva sopravvivenza di (...) successivamente alla verificazione dell'evento lesivo che lo ha colpito (inferiore rispetto all'odierna aspettativa di vita media) e ciò operando un abbattimento percentuale della somma liquidata che tenga conto dello scarto temporale tra l'entità della residua aspettativa di vita media e l'effettivo periodo di sopravvivenza del soggetto in epoca successiva all'evento lesivo e della proporzione tra detti elementi.

Ed invero, la somma, sopra liquidata, di Euro 49.005,00 postula la sopravvivenza del danneggiato sino al raggiungimento della soglia della presumibile aspettativa di vita media (che può fissarsi in 85 anni) e, dunque, nel caso di specie, la proiezione futura del pregiudizio a decorrere dall'insorgenza del danno lungo un arco temporale di circa 33 anni.

L'effettiva sopravvivenza di (...) nel periodo successivo all'evento lesivo si è, invece, protratta per circa nove anni.

Pertanto, alla stregua di un criterio essenzialmente equitativo e tenuto conto della gravità dei postumi invalidanti riportati e del consolidamento dei medesimi nel periodo intercorso tra l'evento lesivo e la morte, si stima congruo liquidare, a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale correlato all'invalidità permanente ed effettivamente patito dal defunto nel periodo di sopravvivenza (e, come tale, risarcibile iure successionis ai relativi eredi), la somma di Euro 17.151,75 (pari al 35% dell'intero importo astrattamente spettante a (...) qualora quest'ultimo fosse, attualmente, ancora in vita).

Va, invece, integralmente riconosciuto il ristoro, iure successionis ed in forma di equivalente pecuniario, dell'intero danno biologico da invalidità temporanea (pari come sopra evidenziato a Euro 17.952,00), trattandosi di pregiudizio integralmente e compiutamente patito da (...) allorché lo stesso era ancora in vita.

Ricordato che il vulnus recato alla capacità lavorativa generica della persona danneggiata può essere ristorato sotto forma di danno biologico (mediante la ""personalizzazione" del risarcimento a detto titolo riconosciuto; cfr. Cass. civ., n. 2311/07), va osservato che "il grado di invalidità permanente determinato da una lesione all'integrità psico - fisica non si riflette automaticamente sulla riduzione percentuale della capacità lavorativa specifica e quindi di guadagno, spettando al giudice del merito valutarne in concreto l'incidenza, sulla scorta delle allegazioni e dei congruenti riscontri forniti dal danneggiato" (così Cass. civ., n. 15674/11).

(omissis....) alla luce delle considerazioni sopra svolte, l'importo del danno non patrimoniale, unitariamente considerato, patito da (...) e risarcibile, iure successionis agli attori (...) nella qualità di eredi dello stesso (...) ammonta a complessivi Euro 35.103,75.

La somma in questione, in quanto calcolata ai valori attuali, va dapprima devalutata alla data dell'evento lesivo (coincidente con la data di esecuzione dell'intervento chirurgico in occasione del quale è insorta l'infezione e, dunque, con il 9 novembre 2004), per poi procedere all'applicazione degli interessi compensativi sulle somme via via rivalutate.

La condanna per la convenuta Casa di Cure prevede il pagamento, in favore degli eredi di (...) e deceduto a Palermo della somma di Euro 42.186,37, oltre interessi al saggio legale dalla data della presente pronuncia sino al soddisfo.

Avv. Francesco Pandolfi      3286090590         francesco.pandolfi66@gmail.com

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Francesco Pandolfi
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