Gli Ermellini ribadiscono che l'irrogazione della massima sanzione disciplinare deve essere di gravità tale da non consentire la prosecuzione del rapporto

di Redazione - L'ingiuria rivolta dal lavoratore al proprio superiore, pur configurando un inadempimento degli obblighi contrattuali secondo la disciplina collettiva, non giustifica il licenziamento, poichè l'irrogazione della massima sanzione disciplinare va valutata secondo le circostanze del caso e applicata  solo in presenza di un inadempimento di gravità tale da non consentire la prosecuzione del rapporto. 

Si tratta di un principio di diritto enunciato dalla Cassazione in una sentenza del 2014 (la n. 14177) in una vicenda riguardante il licenziamento di un lavoratore, irrogato per avere rivolto alla presenza di alcuni dipendenti "espressioni ingiuriose" nei confronti di un funzionario dell'azienda. 

In riforma della sentenza di primo grado, la corte d'appello accoglieva la domanda del lavoratore, ritenendo che la sanzione non fosse proporzionata al comportamento addebitato.

La Cassazione, condividendo le motivazioni della corte territoriale, ha affermato che, per giurisprudenza consolidata, al fine di valutare la sussistenza o meno di una giusta causa di licenziamento

, la quale "deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro, ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all'intensità dell'elemento intenzionale; dall'altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell'elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare".

Anche nell'ipotesi in cui la disciplina collettiva preveda un determinato comportamento quale giusta causa di licenziamento

, la stessa, per la Cassazione, non vincola il giudice, poiché questi deve sempre verificare "se quella previsione sia conforme alla nozione di giusta causa, di cui all'art. 2119 c.c., e se, in ossequio al principio generale di ragionevolezza e di proporzionalità, il fatto addebitato sia di entità tale da legittimare il recesso, tenendo anche conto dell'elemento intenzionale che ha sorretto la condotta del lavoratore".

Pertanto, secondo gli Ermellini, "il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione dell'illecito commesso - istituzionalmente rimesso al giudice di merito - si sostanzia nella valutazione della gravità dell'inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso, dovendo tenersi al riguardo in considerazione la circostanza che tale inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della "non scarsa importanza" di cui all'art. 1455 c.c. , sicché l'irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata soltanto in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali (L. n. 604 del 1966, art. 3) ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto (art. 2119 c.c.)".  

Sulla proporzionalità della sanzione disciplinare la Cassazione si è espressa nello stesso senso anche recentemente (leggi: "Cassazione: proporzionalità della sanzione disciplinare e garanzie del lavoratore").  


Per approfondimenti vai alla guida "La sproporzione del licenziamento disciplinare"





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