Di Maurizio Tarantino

Cassazione Civile n. 1149 del 21 gennaio 2014

A seconda delle modalità con cui viene posto in essere, il mobbing può produrre un danno patrimoniale e/o un danno non patrimoniale.

Quanto alle ipotesi di danno patrimoniale, lo stesso si concretizza in tutte quelle forme di pregiudizio economico che sono stretta conseguenza delle condotte vessatorie del datore di lavoro (mutamento di mansioni, perdita di indennità, ecc.).

Le ipotesi più frequenti di danno patrimoniale da mobbing sono:

a) il danno da demansionamento o dequalificazione professionale o per perdita di professionalità pregressa;

b) il danno emergente (determinato, ad esempio, dalle spese mediche e cure sostenute a causa della malattia psico-fisica ingenerata dagli attacchi mobbizzanti);

c) il danno da lucro cessante (prodotto dai possibili riflessi negativi dovuti alla riduzione della capacità di lavoro, e quindi di produrre reddito, o alla perdita di chances);

d) il danno da licenziamento illegittimo o da dimissioni per giusta causa.

Quanto ai criteri per la risarcibilità delle suddette voci di danno, laddove sia impossibile una quantificazione precisa (demansionamento, dequalificazione, perdita di ulteriori chances), si procederà ad una liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c., utilizzando come parametro una quota della retribuzione per il periodo in cui si è protratta la condotta lesiva (Trib. Milano, 30.09.2006); quanto alle ipotesi di licenziamento e dimissioni, troveranno applicazione i criteri di cui alle specifiche norme di legge (leggi n. 300/70, n.108/90 e n. 604/66 e artt. 2118 e 2119 c.c.).

È opportuno precisare che non vi è un automatico risarcimento del danno, conseguente ad ogni pregiudizio, che si verifica nella sfera economica o psicofisica della vittima, il risarcimento spetta solamente nelle ipotesi in cui vi sia un preciso inadempimento ad un obbligo contrattuale ovvero una violazione del generale principio del neminem laedere, che incontra il suo riferimento principale nell'art. 2043 c.c.

Orbene, premesso quanto innanzi esposto, nel caso de quo la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 1149 del 21 gennaio 2014, ha escluso il risarcimento del danno da mobbing, richiesto da un lavoratore che riteneva essere stato vittima di soprusi da parte di tutti i suoi capi ufficio.

Nel caso in esame, il ricorrente citava l'ENEL (azienda datrice) chiedendo al Giudice del lavoro di dichiarare la illegittimità dei provvedimenti disciplinari irrogati e la illiceità dei comportamenti posti in essere dall'Enel in seguito a continuate azioni di mobbing tenuto conto della dequalificazione subita e dell'adibizione a mansioni inferiori, in contrasto con l'art. 2103 del c.c.

Il ricorrente chiedeva dunque la condanna della società alla completa ricostruzione della carriera con l'attribuzione delle mansioni corrispondenti e del risarcimento di tutti danni subiti ed in particolare del danno alla salute, del danno biologico e del danno esistenziale; chiedeva poi il risarcimento del danno professionale subito in conseguenza dell'illegittima dequalificazione ed emarginazione patiti, del danno all'immagine ed alla dignità personale nonché del danno morale ed alla vita di relazione oltre al risarcimento del danno da "perdita di chance di promozione e di carriera".

Lo stesso asseriva di essere stato vittima di mobbing in quanto, nel corso della carriera lavorativa, (ben quindici anni) aveva subito diversi trasferimenti d'ufficio e destinato a mansioni frustranti; per meglio dire, affermava di essere stato emarginato dai colleghi e che, l'atteggiamento dei vari capiufficio si erano sempre rivelati persecutori, con l'applicazione di diverse sanzioni disciplinari, finanche all'aver subito una presunta aggressione fisica e verbale da parte di un superiore.

Sia il Tribunale di primo grado che la Corte d'appello, respingevano le domande del lavoratore

Difatti, secondo la Suprema Corte, il ricorrente, in relazione agli innumerevoli episodi oggetto di contestazioni e sanzioni disciplinari (mai formalmente impugnate) si è limitato a fornire, a distanza di molti anni, una propria versione dei fatti contrapposta a quella della società sulla base di una serie di affermazioni prive di qualsiasi sostegno probatorio.

Invero, gli ermellini, richiamando quanto stabilito nel giudizio in Appello, rilevano come  la Corte territoriale con motivazione puntuale e dettagliata, ha passato in rassegna gli episodi narrati dal lavoratore come indicativi della condotta vessatoria asseritamente subita, ponendo in evidenza, nel complesso, che la società, in relazione a ciascun episodio contestato, aveva condotto una approfondita istruttoria disciplinare acquisendo le dichiarazioni scritte o verbali di altri impiegali presenti al momento dei fatti.

Alla luce di tutto quanto innanzi esposto, la Suprema Corte, conformemente al provvedimento impugnato, ha escluso il risarcimento del danno al lavoratore (affetto da manie di persecuzione) che ritiene di essere "mobbizzato" da tutti i superiori gerarchici; ritenendo improbabile, infatti, che tutti i superiori abbiano avuto un atteggiamento vessatorio nei confronti del lavoratore.

 

Maurizio Tarantino

 

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Cassazione Civile sentenza 21 gennaio 2014 n. 1149

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