di Licia Albertazzi - Corte di Cassazione Civile, sezione lavoro, sentenza n. 589 del 14 Gennaio 2014. La sanzione massima dell'espulsione - cioè del licenziamento - del lavoratore dall'azienda può essere correttamente irrogata solo secondo criteri tassativi e pur sempre nel rispetto del principio di proporzionalità. E' illegittimo il licenziamento inflitto per ragioni che non possono essere qualificate giudizialmente come giusta causa.


Nel caso in oggetto un dipendente è stato licenziato dopo che lo stesso avrebbe ingiustificatamente abbandonato la propria postazione durante l'orario di lavoro. In realtà, in corso di causa, è emerso che l'atto di lasciare il luogo di lavoro è stato dettato da l'ennesimo comportamento discriminatorio datoriale: al lavoratore sarebbe stato intimata la perquisizione poiché sospettato di aver sottratto alcuni beni appartenenti all'azienda. A tale pratica era sottoposto ormai da molto tempo e, nonostante i continui reclami e richieste di intervento rivolte ai superiori gerarchici, questa condizione era finita per divenire psicologicamente insostenibile. Impugnato il licenziamento, esso veniva rigettato in primo grado mentre la sentenza veniva completamente riformata in appello, con contestuale condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno. Contro tale statuizione l'azienda proponeva ricorso in Cassazione.


Secondo la Suprema Corte ogni tipo di valutazione richiesta dal caso in esame riguarda il merito, e come tale è insindacabile dal giudice di legittimità se non nei limiti del difetto o irragionevolezza della motivazione. Il giudizio di proporzionalità - cioè di effettiva sproporzione tra licenziamento e condotta vessatoria subita dal lavoratore - è questione riservata al giudice d'appello, il quale ha correttamente valutato tutte le prove prodotte in giudizio, formando su di esse il proprio convincimento. Da ciò, la carenza di proporzionalità e dunque di giusta causa hanno determinato l'illegittimità della misura sanzionatoria adottata.


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