di Licia Albertazzi - Corte di Cassazione Civile, sezione lavoro, sentenza n. 14319 del 6 giugno 2013. In tema di legittimità della giusta causa addotta dall'impresa nel licenziare un proprio dipendente il giudice deve valutare le motivazioni caso per caso, valutando nel concreto il reale assetto aziendale nonché il ruolo che il dipendente ha all'interno dell'azienda. Nel caso in oggetto il lavoratore licenziato ha promosso ricorso avverso la sentenza del giudice d'appello che ha ritenuto legittimo il licenziamento, statuizione intervenuta in riforma ad una prima sentenza di merito che aveva invece visto prevalere le ragioni del privato. Il licenziamento sarebbe infatti derivato da una notevole riduzione dell'attività amministrativa di registrazione e di caricamento delle dichiarazioni e delle ricezioni dal pubblico a cui era addetto il dipendente, con conseguente netta diminuzione dei ricavi.

 

A ciò si è sommata la circostanza che al dipendente sarebbe stata proposta una trasformazione dell'orario di lavoro da full a part time, ma questa soluzione sarebbe stata rifiutata. In secondo grado la società avrebbe dunque dimostrato come, in tali circostanze, il licenziamento del lavoratore sarebbe stato inevitabile. La Cassazione ribadisce come essa non possa entrare nel merito della decisione assunta dal giudice d'appello, essendo la soluzione adottata ragionevole e la motivazione logica e priva di vizi di sorta. La Suprema Corte si è limitata ad accertare che "il licenziamento della ricorrente, lungi dall'essere stato arbitrariamente adottato, era causalmente collegato ad un'effettiva sopravvenuta riduzione dell'attività aziendale nel settore amministrativo".

 

Circa l'eventuale integrazione da parte del datore di licenziamento ritorsivo la Cassazione esclude l'integrarsi di tale fattispecie; infatti "in tema di provvedimento del datore di lavoro a carattere ritorsivo, l'onere della prova su tale natura dell'atto grava sul lavoratore, potendo esso essere assolto con la dimostrazione di elementi specifici, tali da far ritenere con sufficiente certezza l'intento di rappresaglia". Gli elementi che il lavoratore deve produrre in corso di giudizio non possono limitarsi a mere considerazioni astratte ma deve dimostrare "la sussistenza di un rapporto di causalità tra le circostanze pretermesse e l'asserito intento di rappresaglia". Requisito che il lavoratore non ha saputo integrare.

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