Con la sentenza 16643 del 15 novembre 2012, la Cassazione ha affermato che è da ritenersi illegittimo il licenziamento del dipendente che, nonostante l'odio per l'azienda, non danneggia il datore. Per la sezione lavoro della Suprema corte, anche se l'animosità fosse provata di per sé essa non giustificherebbe il recesso del datore, laddove l'odio per il contesto lavorativo non si traduce in condotte oggettive, che non risultano dimostrate.

Piazza Cavour concorda anche con la decisione di non disporre una perizia medica chiesta dall'azienda sul profilo psicologico del dipendente per accertare come l'inimicizia nutrita dal lavoratore nei confronti del datore determini effetti anche nelle prestazioni imposte dal contratto, in quanto la condotta del lavoratore deve essere valutata nel suo contenuto oggettivo e non contano i profili squisitamente interiori del dipendente, che è libero di coltivare i sentimenti che crede, anche quando emergono da un atto giudiziario.

Pertanto, al lavoratore va comunque riconosciuto il diritto di critica e la valutazione della Corte di merito secondo cui «le affermazioni del dipendente non vanno oltre il consentito non è censurabile in sede di legittimità se ben motivata. D'altronde, ai fini del recesso del datore, conta solo dimostrare che l'odio contro il datore si traduca in comportamenti concreti, senza che rilevino gli aspetti interiori».

Dunque, per il Palazzaccio il recesso è escluso per l'animosità che non sfocia in condotte oggettive e il "no" della Ctu è lecito perché irrilevante il profilo psicologico del dipendente.
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