La Corte di Cassazione, con sentenza n. 20016 del 15 novembre 2012, ha affermato l'illegittimità del licenziamento intimato dal datore di lavoro ad una dipendente in ragione del rifiuto di passare dal rapporto di lavoro a tempo parziale a quello a tempo pieno come richiesto per esigenze organizzative aziendali. 

La Corte d'Appello affermava che le esigenze produttive sopravvenute, lungi dall'implicare la soppressione della posizione lavorativa, imponendone invece il potenziamento escludevano la sussistenza di un giustificato motivo oggettivo a fronte di un rifiuto del lavoratore (anteriore alla specifica disciplina dettata al riguardo dall'art. 5 del D.Lgs. 25 febbraio 2000, n. 61, che ne escludeva espressamente la configurabilità) di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo parziale in rapporto a tempo pieno, essendo in tal caso il licenziamento dovuto ad una determinazione dell'imprenditore di preferenza, per mera convenienza economica, del rapporto a tempo pieno in luogo di una pluralità di rapporti a tempo parziale.

 La Suprema Corte ha ricordato, sottolineando che le censure del datore di lavoro ricorrente muovono dal presupposto "della inesigibilità del ricorso ad un ulteriore rapporto part-time

in considerazione della difficoltà di reperire una prestazione lavorativa per solo due ore giornaliere", che nell'ipotesi di licenziamento motivato da determinate esigenze relative ad una riorganizzazione aziendale finalizzata ad una più economica gestione mediante la trasformazione di alcuni rapporti da tempo pieno a tempo parziale, ai fini della sussistenza o meno del giustificato motivo obiettivo di recesso nel caso di rifiuto della trasformazione, rileva la presenza delle cosiddette clausole elastiche, che (ora legittime a determinate condizioni secondo il d.lgs. n. 61 del 2000) erano vietate ai sensi dell'art. 5 del d.l. n. 726 del 1984 (convertito nella legge n. 863 del 1984), applicabile "ratione temporis", il quale nel quadro di una rigorosa predeterminazione della collocazione temporale dell'orario di lavoro - escludeva la possibilità di attribuire al datore di lavoro la facoltà di disporre unilateralmente variazioni dei tempi della prestazione. 

D'altro canto - proseguono i giudici di legittimità - "se, ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, vi deve essere anche uno stretto nesso di consequenzialità e necessità tra esigenze produttive ed eliminazione del rapporto lavorativo, tanto comporta che la sussistenza di tale nesso è sottoposta alla verifica giudiziale la quale però, non intacca l'autonomia dell'imprenditore, in quanto egli rimane pur sempre libero di assumere le scelte -insindacabili nella loro opportunità- ritenute maggiormente idonee ai fini della gestione dell'impresa. 

In altri termini quello che viene in considerazione, ai fini di cui trattasi, non è l'opportunità della determinazione datoriale, quanto piuttosto l'effettività della ragione posta a fondamento della scelta e il nesso di questa con il singolo rapporto di lavoro coinvolto dalla scelta.".


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