No all'espulsione del pregiudicato straniero che convive con parenti entro il secondo grado o con il coniuge che siano di nazionalità italiana. È questa la decisione con cui la prima sezione penale del Palazzaccio ha messo nero bianco tale principio di diritto spiegando che l'art. 19, co. 2, lett. e) del d.lgs. n. 286/1998, il cd. testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, si applica a tutte le espulsioni giudiziali tra cui, senza dubbio, vi è la decisione del Tribunale di Sorveglianza, oggetto di ricorso, che ha applicato l'espulsione del condannato a titolo di misura di sicurezza. In particolare, dalla parte motiva della sentenza
si legge infatti che "dando continuità ad un principio di diritto già espresso da questa Corte di legittimità e che il Collegio condivide (Cass., Sez. 3, 3 febbraio 2010 n. 18527, Nabil e altro, rv. 246974), che la previsione secondo cui non è consentita l'espulsione degli stranieri conviventi con parenti entro il secondo grado o con il coniuge che siano di nazionalità italiana (art. 19, comma secondo, lett. c) del d.lgs. 286 del 1998) si applica a tutte le espulsioni giudiziali tra cui, senza dubbio, vi è la decisione del Tribunale di Sorveglianza, oggetto di ricorso, che ha applicato l'esplusione del condannato di misura di sicurezza. Tale principio è ricavabile non solo dal testo letterale dell'art. 19 che esclude espressamente dal divieto di espulsione soltanto i casi previsti dall'art. 13, comma primo, vale a dire nella ricorrenza di motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato, ma anche dei principi di diritto sanciti dall'art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, (cui è stata data esecuzione in Italia con l. 4 agosto 1955, n. 848), secondo cui "ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio
e della sua corrispondenza" né "può esservi inerenza della pubblica autorità nell'esercizio di tale diritto se non in quanto tale ingerenza sia prevista dalla legge e in quanto costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, l'ordine pubblico, il benessere economico del paese, la prevenzione dei reati, la protezione della salute o della morale o la protezione dei diritti e delle libertà altrui". Secondo la ricostruzione della vicenda, uno straniero, ritenuto socialmente pericoloso, era stato ritenuto passibile di espulsione dal Tribunale di sorveglianza. Avverso tale provvedimento, si opponeva l'uomo che ritenendo violato l'art.19 del Dlgs 286/1998[1] con cui viene esclusa - salvo per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato - l'espulsione "degli stranieri conviventi con parenti entro il secondo grado o con il coniuge che siano di nazionalità italiana", proponeva ricorso per cassazione.

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