Per il tribunale di Ivrea non basta un singolo episodio violento nei confronti della moglie per far scattare la condanna del marito per il delitto di maltrattamenti

di Lucia Izzo - Non è sufficiente, per ritenere sussistente il reato di maltrattamenti in famiglia, un singolo episodio violento in quanto è necessaria una condotta abituale che consista in più atti lesivi dell'integrità, libertà e decoro della vittima o in atti di disprezzo e umiliazione che offendano la sua dignità. 


Lo ha stabilito il Tribunale di Ivrea, sezione penale, con la sentenza n. 714/2016 (qui sotto allegata), nel procedimento nei confronti di un uomo, imputato del reato ex art. 572 c.p. per avere, secondo l'accusa, "maltrattato la moglie convivente picchiandola, ingiuriandola, minacciandola e sottoponendola abitualmente a una serie di atti lesivi dell'integrità fisica e della sfera morale al fine di costringerla ad un regime di vita dolosamente vessatorio".


La persona offesa aveva riferito che la convivenza matrimoniale era stata caratterizzata da periodi di accordo ed armonia e periodi problematici, in cui vi erano state accese discussioni originate principalmente dal forte sentimento di gelosia nutrito dal coniuge nei suoi confronti. 


Tuttavia, per i giudici, non si ritiene provata, oltre ogni ragionevole dubbio, la penale responsabilità dell'imputato per il reato a lui ascritto. Secondo il consolidato insegnamento della Suprema Corte, espresso nella sentenza n. 45037/2010 e in successive pronunce, il concetto di maltrattamenti di cui all'art. 572 c.p. presuppone "una condotta abituale, che si estrinseca in più atti lesivi, realizzati in tempi successivi, dell'integrità, della libertà, dell'onore, del decoro del soggetto passivo o più semplicemente in atti di disprezzo, di umiliazione, di asservimento che offendono la dignità della vittima" (cfr. Cassazione: niente maltrattamenti in famiglia se manca la soggezione della vittima

).


Il legislatore, con la norma in esame, ha attribuito particolare disvalore soltanto alla reiterata aggressione all'altrui personalità, assegnando autonomo rilievo penale all'imposizione di un sistema di vita caratterizzato da sofferenze, afflizioni, lesioni dell'integrità fisica o psichica, le quali incidono negativamente sulla personalità della vittima".


Ne risultano, quindi, esclusi agli atti episodici, pur lesivi dei diritti fondamentali della persona, ma non riconducibili nell'ambito della descritta cornice unitaria, perché traggono origine da situazioni contingenti e particolari che sempre possono verificarsi nei rapporti interpersonali di una convivenza familiare, che conservano eventualmente, se ne ricorrono i presupposti, la propria autonomia come delitti contro la persona, già di per sé sanzionati dall'ordinamento giuridico (leggi:  Maltrattamenti in famiglia: nessun reato se non c'è uno stato di soggezione della vittima). 


Orbene, nella vicenda in esame è stata acquisita evidenza probatoria esclusivamente di litigi, legati alla gelosia del marito, all'educazione dei figli o a problemi economici della coppia, occasionalmente degenerati (dieci occasioni ai massimo in undici anni, come affermato dalla denunciante in dibattimento) in sberle al volto, ed in un caso in un calcio al torace.


Indubbiamente rimane ferma la censurabilità dei singoli attentati all'integrità fisica e morale della donna e la loro rilevanza penale quali percosse, ingiurie e lesioni (peraltro improcedibili per difetto di querela), ma ciò che difetta per la configurazione del supposto reato ascritto è proprio la sistematicità e continuità nel tempo di una condotta maltrattante. propriamente intesa, sorretta dal dolo di infliggere al coniuge condizioni di vita intollerabili. Si impone, dunque, l'assoluzione dell'imputato per essere insufficiente la prova del fatto

Tribunale di Ivrea, sent. 714/2016

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