Per la Cassazione l'inserimento in famiglia 'uti filius' è incompatibile con lo status di 'schiavo'

di Lucia Izzo - La Corte di Cassazione, sez. V Penale, ha depositato il 6 agosto 2015 la sentenza n. 34460 (qui allegata), provvedimento originato dal ricorso di una coppia la quale aveva "acquistato" un minore "con l'intenzione di fargli assumere i dati anagrafici di altro soggetto mai nato, ma, a suo tempo denunziato come figlio della coppia e per il quale gli stessi avevano ottenuto falsi cocumenti di identità".

I coniugi, sottoposti ad indagine anche per altri delitti, hanno tuttavia contestato dinnanzi alla Corte soltanto l'esistenza dei presupposti del reato ex art. 600 c.p. per il quale si sono visti condannare alla misura degli arresti domiciliari dal GIP presso il Tribunale di Messina.

Trattasi precisamente del reato di riduzione in schiavitù che, nel caso di specie, è ritenuto dalla coppia non sussistente poiché l'acquisizione di un minore "uti filius", per consolidata giurisprudenza, non viene identificata quale presupposto per la fattispecie indicata: lo schiavo il servo sono "adoperati" e sfruttati dal padrone, situazione non equiparabile a quella di un bambino accolto in famiglia, seppur contra legem.

Gli Ermellini hanno ritenuto il ricorso fondato, spiegando con chiarezza sistematica, seppur stringatamente, le motivazioni della decisione.

In primis, i giudici hanno richiamato casi analoghi sul quale si è fondata la precedente giurisprudenza della Corte, spiegando come sia lo stesso tenore letterale dell'art. 600 c.p.ad escluderne l'applicazione al caso di specie: la norma richiede che la fattispecie di reato sia "connotata dalla finalità di sfruttamento dell'uomo sull'uomo" poiché essa stessa precisa che il soggetto attivo non solo si deve trovare ad esercitare un potere corrispondente al diritto di proprietà, "ma deve anche realizzare la riduzione o il mantenimento in stato di soggezione del soggetto passivo".

Lo scopo a cui ambo le condotte richiamate sono preordinate, è ottenere prestazioni lavorative, sessuali, di accattonaggio nelle quali si concreta lo sfruttamento dello schiavo.

Ciò non ricorre nel'ipotesi in cui il neonato compravenduto, seppur contra legem, sia inserito in una famiglia che non è quella naturale.

Parimenti da escludere l'applicabilità dell'art. 567 c.p. riguardante l'alterazione di stato, in quanto la norma si applica al "neonato", mentre il bambino oggetto della controversia ha sicuramente superato l'eta neonatale.

Viste tali premesse l'ordinanza impugnata si vede annullata relativamente al reato summenzionato, ma la logica stringente dei giudici non può non ingenerare perplessità laddove consente di esercitare su un minore poteri sostanzialmente "corrispondendti a quelli del diritto di proprietà

", giustificando la condotta solo per l'inserimento nella famiglia uti filius e non quale schiavo.

Indubbiamente, sarebbe necessaria una valutazione in concreto della situazione prospettata, senza dimenticare i principi fondamentali della persona umana.

assazione, sez. V Penale, sent. 34460/2015

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