Il datore di lavoro aveva sottratto al dipendente alcune ore di lavoro in considerazione dei suoi ritardi

Non costituisce mobbing la decisione del capo di sanzionare il lavoratore ritardatario decurtandogli alcune ore di retribuzione.


Lo afferma la Corte di Cassazione (sentenza n. 13693/2015) evidenziando che, non c'è sproporzione tra la sanzione e le mancanze addebitate, posto che questo tipo di sanzione è "prevista dalla disposizione collettiva, in relazione a mancanze più lievi rispetto a quelle poste in essere dalla lavoratrice".


Nel ricorso per Cassazione la lavoratrice aveva anche lamentato che i giudici di merito non avrebbero correttamente applicato i principi che regolano l'onere della prova secondo cui grava sul datore di lavoro l'onere di provare di avere ottemperato all'obbligo di protezione dell' integrità psicofisica del lavoratore, mentre sul lavoratore "incombe il diverso onere di dimostrare sia l' eventus damni, sia il nesso di causalità fra questo e la prestazione lavorativa".


A detta della ricorrente, la Corte d'appello si sarebbe limitata a riscontrare un difetto di prova in ordine alla condotta colposa del datore di lavoro, omettendo prendere in considerazione gli accertamenti medico-legali allegati alla comparsa di costituzione che evidenziavano l'esistenza di un nesso di causalità fra il danno alla salute e l'atteggiamento assunto dal datore di lavoro con reiterate sanzioni irrogate nei suoi confronti.

La Cassazione pur avendo evidenziato alcuni profili di inammissibilità di tale motivo di ricorso ha comunque evidenziato che la decisione dei giudici di merito è in linea con l'orientamento già espresso in altre pronunce dalla stessa Corte, secondo cui "ai fini della configurabilità del "mobbing" lavorativo devono ricorrere:


a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o anche leciti se considerati singolarmente - che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;


b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;


c) il nesso eziologico tra le descritte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;


d) l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi (vedi, Cass. 6 agosto 2014 n. 17698)".

Nel testo della sentenza (qui sotto allegato) la Corte, per completezza espositiva, richiama anche altri principi affermati in precedenti pronunce.


Testo sentenza n. 13693/2015

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