"La norma dell'art. 3 della legge 108 del 1990, relativa all'estensione ai licenziamenti nulli in quanto discriminatori di cui agli artt. 4 della legge n. 604 del 1966 e 15 della legge n. 300 del 1970, a prescindere dal numero dei dipendenti del datore di lavoro e anche a favore dei dirigenti, deve intendersi applicabile in genere ai licenziamenti nulli per motivo illecito determinante e in particolare a quelli che siano determinati in maniera esclusiva da motivo di ritorsione o di rappresaglia". Lo ha ribadito la Sezione lavoro della Suprema Corte con la sentenza n. 24347 del 1° dicembre 2010, rigettando il ricorso di una società avverso la decisione dei giudici di appello. Il licenziamento intimato dalla società ad un proprio dipendente era stato ritenuto fondato su motivi di ritorsione e rappresaglia a fronte di rivendicazioni retributive del lavoratore, con conseguente condanna alla reintegrazione. La Società ricorrente si duole del fatto che, sebbene in causa fosse pacifico che non ricorrevano nel caso in esame i requisiti numerici per l'applicazione della tutela reale, la Corte territoriale abbia sostanzialmente applicato l'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori ad un licenziamento qualificato come rappresaglia. La Corte di Cassazione, ritenendo infondato il motivo di ricorso della Società, afferma l'applicabilità, anche al licenziamento, della disciplina generale del negozio a motivo illecito determinante nonché la portata di principio generale che assume la regola di cui all'art. 3 della legge n. 108 del 1990.
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