Sotto il profilo psico-giuridico, il contesto relazionale tra autore e vittima assume rilievo centrale. La giurisprudenza ha più volte affermato che il movente non costituisce elemento costitutivo del reato, ma può fungere da criterio di intelligibilità del fatto quando consente di spiegare la genesi dell'azione criminosa (Cass. pen., sez. I, n. 41184/2013). Nel caso di specie, la ricostruzione del rapporto interpersonale e delle dinamiche emotive sottese ha contribuito a delineare una cornice interpretativa coerente con la condotta omicidiaria.
La Suprema Corte ha inoltre ribadito che l'assenza di tracce biologiche univoche non è di per sé ostativa alla condanna, ove il giudizio si fondi su una valutazione globale e non atomistica della prova (Cass. pen., sez. un., n. 33748/2005, Mannino). Ciò pone l'accento sulla necessità di un approccio integrato, in cui dati scientifici, comportamenti post-factum e incongruenze dichiarative vengano letti secondo criteri di razionalità inferenziale.
Sul piano sovranazionale, la Corte EDU ha chiarito che il giusto processo non impone una prova "scientificamente certa", ma una decisione motivata e ragionevole, fondata su un accertamento complessivo dei fatti (CEDU, Barberà, Messegué e Jabardo c. Spagna, 1988). Il caso Garlasco conferma dunque come il processo penale contemporaneo richieda una sintesi tra metodo giuridico e comprensione psico-criminologica, al fine di evitare tanto il rischio dell'arbitrio quanto quello di una sterile iper-tecnicizzazione della prova.
Dott. Alessandro Pagliuca
Avvocato abilitato all'esercizio della professione forense
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