La vicenda del gioielliere di Cuneo che ha inseguito i suoi rapinatori in strada uccidendone due e ferendo il terzo, ha suscitato molti commenti, spesso carichi di deviazioni emotive


Il soggetto in questione, come è noto, è stato ritenuto colpevole di "omicidio volontario" e perciò condannato a 17 anni di carcere, ritenendo il Giudice non sussistere gli estremi della legittima difesa.

Questa vicenda assume i carateri dell'emblematicità e merita quindi qualche riflessione specifica.

Notiamo innanzitutto che, nelle sue considerazioni, il Giudice ha posto a base della sua decisione la circostanza che, a suo parere, si era verificata una situazione di "desistenza" che, per definizione, esclude la motivazione a reagire. I rapinatori, bersaglio degli spari del gioielliere, si stavano allontanando dal negozio e pertanto, nella visione del Giudice, non rappresentavano più, per quest'ultimo, un pericolo in atto cui fosse legittimo reagire.

Esaminiamo allora questo concetto di desistenza.

Nel senso comune, che è alla base del concetto delineato dalla legge, il termine desistere significa rinunciare (ad una azione o ad un progetto).

Esaminando il nostro caso, non si evidenzia, per vero, alcun fenomeno di abbandono dell'azione intrapresa. I malfattori vengono colpiti quando stavano semplicemente completando la loro opera con l'allontanamento, con la fuga: uno dei momenti dei quali si compone l'aggressione.

Il gioielliere, protagonista dell'evento, si trova in condizioni di grave turbamento psichico, anche a causa delle percosse inflitte dai rapinatori alla moglie e alla figlia, e la fuga degli aggressori, con i valori rubati, non ha per lui il significato e la valenza di un abbandono del disegno criminoso: si tratta soltanto del completamento di questo. In quel momento, in sostanza, la rapina è - ad ogni effetto - ancora in corso. I rapinatori non stanno affatto desistendo: si allontanano solo per mettersi al sicuro: stanno completando il loro intervento.

Il gioielliere, in quel momento, da parte sua, " vive" pienamente l'impatto emotivo dell'aggressione.

Ci troviamo dunque di fronte ad una situazione nella quale il quadro degli eventi non evidenzia alcuna "desistenza".

Per il gioielliere la tensione emotiva è massima e tale senz'altro da generare e giustificare una reazione.

E' altresì da tenere in considerazione un aspetto qui trascurato. Ci troviamo infatti a pieno titolo in un caso di "provocazione" (62 c.p.). L'aggressione si configura senz'altro come una offesa alla personalità dell'aggredito, al pari di uno schiaffo o di un insulto, ed è perciò comprensibile una reazione da parte di chi la subisce.

E' ancora da considerare che il gioielliere ha già subito in passato una rapina ed ha sicuramente accumulato dentro di sé una rabbia violenta, base di una reazione decisa. Infatti, egli si è procurato un'arma, una pistola che, temendo ritardi e difficoltà burocratiche, ha evitato perfino di denunciare.

La sua reazione è un atto che, nell'evolversi degli eventi, avrebbe certamente messo in atto immediatamente, ove le circostanze l'avessero consentito. Se il momento realizzativo di questa reazione è risultato spostato in avanti nel tempo di qualche secondo, ciò avviene solo in ragione dell'evolversi dei fatti.

Da ultimo, per una più compiuta valutazione della vicenda in esame, è da ricordare un principio fondamentale del nostro ordinamento giuridico: chi viola le regole si assume automaticamente la responsabilità di tutte le conseguenze, dirette e indirette, del suo gesto.

Così, per fare un esempio, colui che, a bordo di un automezzo, non rispetta lo stop semaforico, è responsabile dei danni causati dalla manovra di emergenza cui ha costretto il mezzo sopravveniente.

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