L'adesione su un social ad una comunità virtuale che diffonde idee sovversive e xenofobe integra il reato di cui all'art. 604 bis c.p.


Aderire ad una comunità virtuale che diffonde idee sovversive e xenofobe integra il reato di cui all'art. 604 bis c.p. e non regge il diritto alla libera manifestazione del pensiero. Così la prima sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 38423/2023, dichiarando inammissibile il ricorso di un uomo condannato per il reato ex art. 604-bis, commi 2 e 3, c.p., a causa delle comunicazioni svolte in una chat su Telegram, da cui emergeva l'esistenza di un sodalizio che si riprometteva di creare le basi per un futuro colpo di Stato propagandando anche idee razziste e negazionismo della Shoah.
La difesa sminuiva l'attività di propaganda in termini di black humor o di attività di gioco, delineando la condotta dell'indagato come espressione della sua passione per i giochi informatici di magia e simulazione di guerra, passione condivisa da un gruppo ristretto di sei amici con i quali unicamente interloquiva servendosi di chat private intercorse sulla piattaforma social, senza alcuna finalità di divulgazione al pubblico, trattandosi di conversazioni confinate in una realtà ludica parallela.
In tale ambito di gioco e di libertà di espressione privata vanno inserite le argomentazioni in tema di Shoah, prive di ogni finalità di propaganda ovvero di divulgazione di idee fondate sulla superiorità e/o sull'odio razziale.

Per gli Ermellini, tuttavia, il ricorso è inammissibile e il quadro indiziario è chiaro, come dimostrato dai contenuti delle intercettazioni. Dalle chat intercettate, infatti, l'impugnata ordinanza ha delineato la concreta offensività degli scambi di comunicazioni, intesi a dare corpo come ha illustrato il giudice del riesame, con motivazione congrua e adeguata al contestato reato, dimostrando che l'attività dell'associazione fosse assolutamente in grado di raggiungere un numero indeterminato di utenti, trattandosi di attività posta in essere sulla piattaforma social "(Omissis)", e non già - come ancora sostiene la difesa - un'attività riservata ad una ristretta cerchia di amici.

Invero, proseguono dal Palazzaccio, "l'esegesi di legittimità ha già affermato il principio per cui 'Integra il reato di cui all'art. 604-bis, comma 2, c.p., l'adesione ad una comunità virtuale caratterizzata da vocazione ideologica neonazista, avente tra gli scopi la propaganda e l'incitamento alla discriminazione e alla violenza per motivi razziali, etnici o religiosi e la condivisione, sulle bacheche delle sue piattaforme social, di messaggi di chiaro contenuto negazionista, antisemita e discriminatorio per ragioni di razza, attraverso l'inserimento di like e il rilancio di post e dei correlati commenti, per l'elevato pericolo di diffusione di tali contenuti ideologici tra un numero indeterminato di persone derivante dall'algoritmo di funzione dei social network, che aumenta il numero di interazioni tra gli utenti" (cfr. Cass. n. 4534/2021).

Nè può invocarsi, "a discrimine di tali contenuti corrispondenti alla fattispecie delittuosa - concludono dalla S.C. dichiarando inammissibile il ricorso - la libertà di opinione e di parola, trattandosi del bilanciamento di interessi di rango costituzionale che hanno già trovato assetto definitivo nella incriminazione prevista dall'art. 604 bis c.p.".


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