La Cassazione sull'esclusione della scriminante in merito all'utilizzo di piccioni vivi come esche per la pesca

Uso di piccioni vivi come esche per la pesca: la vicenda

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Tizio e Caio utilizzano piccioni vivi gettandoli nel fiume come esche per la pesca dopo averli appesi per una zampa all'amo. Condannati in primo e secondo grado alla pena di euro 4.000,00 ciascuno perché riconosciuti responsabili del reato di maltrattamento ex art. 544 ter c.p., ricorrono in Cassazione.

I motivi di impugnazione

Singolari, ma non trascurabili per quanto si dirà, i motivi di impugnazione. Il primo: nell'ambito della pesca sportiva i piccioni al pari di altri volatili sono prede naturali del pesce siluro e pertanto, cosi' come non e' censurabile la condotta del pescatore che infilza all'amo vermi vivi, non può essere penalmente rilevante il praticato utilizzo dei piccioni. Il secondo: costituendo la pesca attivita' lecita, la finalita' di svago attraverso essa perseguita scrimina la condotta tenuto altresi' conto che l'articolo 19 disp. coord. c.p. esclude l'applicabilita' delle disposizioni del titolo IX bis del libro secondo del codice penale ai casi previsti dalle leggi speciali in materia di caccia pesca, allevamento, trasporto e macellazione degli animali.

Come detto, più che singolari questi motivi impongono delle riflessioni non secondarie che la Corte di Cassazione (cfr. n. 17691/2019) ha svolto giungendo a non riconoscere fondato il ricorso. Ripercorriamoli.

Il ragionamento della Corte di Cassazione

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L'art. 544 ter cp palesa l'acquisita consapevolezza della natura di esseri viventi degli animali in grado di percepire sofferenze non soltanto di natura fisica ma anche di quelle che incidono sulla loro psiche tanto da avere implementato e considerato (rispetto all'art. 727 cp) anche le ipotesi dolose sul presupposto (mancante nel 727 cp) della crudelta' o della mancanza di necessita'.

L'articolo 19 disp. coord. c.p. -differentemente da quanto argomentato dai ricorrenti -non è una zona franca volta a garantire agli esercenti le attivita' ivi menzionate, fra cui e' compresa la pesca, di commettere impunemente i reati disciplinati dal titolo IX - bis del codice penale. La ratio ispiratrice della norma e' quella di escludere l'applicabilita' delle norme penali con riferimento ad attivita' obbiettivamente lesive della loro vita o salute a condizione che siano svolte nel rispetto delle normative speciali che le disciplinano perche' considerate socialmente adeguate al consesso umano. Ogni comportamento - come quello scrutinato dalla Corte - che esuli da tale ambito e' suscettibile di essere penalmente valutato.

L'errata interpretazione dell'esercizio di un diritto

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A dire della Corte è dunque da escludersi che l'esimente dell'esercizio di un diritto,sia applicabile alla fattispecie in esame. La normativa vigente in materia di pesca - nel cui ambito rientra la pesca sportiva, caratterizzata dall'uso della canna come attrezzo principale, non disciplina le esche e conseguentemente neppure contempla, a differenza della disciplina sulla caccia (che consente l'uso, a scopo venatorio, di richiami vivi, ma comunque vieta che ad esseri viventi dotati di sensibilita' psico-fisica siano arrecate ingiustificate sofferenze), l'utilizzo di animali viventi.

E' invece vero - prosegue la Corte - che i pescatori impiegano come esca vermi vivi ma, a prescindere dal rilievo che trattasi in tal caso di larve (quali si configurano, fra le più usate, i bigattini o le camole), il loro utilizzo a tal fine, non contrastante con le attitudini etologiche di tali esseri, non si presta in ogni caso a recar loro sofferenze. Del tutto diverso e' l'impiego di volatili, quali sono i piccioni, legati per una zampetta all'amo e costretti a seguire il volo della lenza fino a venire ripetutamente catapultati nel fiume quale richiami per la cattura del pesce siluro che, a detta della difesa, di tali uccelli si nutre.

La stessa l'imbracatura alla lenza e in particolare "l'attentato alla loro stessa sopravvivenza con gli affogamenti ripetuti nell'acqua" si configurano come vere e proprie sevizie atte a provocare agli uccelli, quand'anche sopravvissuti, gravi sofferenze, indipendentemente dalle lesioni eventualmente arrecategli. E il fatto che i piccioni siano prede naturali del pesce siluro non può avere alcun pregio dal momento che il loro sacrificio ha finalita' assolutamente non necessarie rispetto allo scopo dell'attivita' amatoriale praticata.

La sentenza conclude affermando che la pesca, anche del pesce siluro, e' comunque praticabile con le esche di uso comune (che comprendono, secondo l'accezione di uso corrente animaletti o pezzetti di carne o di altri organi animali, sostanze diverse o anche oggetti luccicanti, che si mettono all'amo per attirare e prendere i pesci), senza che debba farsi ricorso ai piccioni sottoponendoli così a condizioni insopportabili per le loro attitudini etologiche e incompatibili con il comportamento proprio della specie di appartenenza, cosi' come ricostruito dalle scienze naturali.

Scriminanti per maltrattamenti pre-agonici

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Maurizio Santoloci, magistrato illuminato e purtroppo prematuramente scomparso qualche anno addietro, riferendosi a situazioni come questa aveva coniato l'espressione di "scriminanti per ipotesi di maltrattamenti pre-agonici" nel senso che, spiegava con disarmante chiarezza, non poteva esistere una "anticamera giuridica della morte" entro la quale sono legittimati comportamenti vessatori che - in condizioni diverse e verso animali destinati a morire per morte naturale - non sarebbero mai tollerati o accettati.

Da queste condivisibilissime argomentazioni si può forse trarre un ulteriore prezioso messaggio che pone l'alterità, e dunque l'animale come soggetto della vita e non oggetto del diritto, quale vero protagonista.

E qui si disvela il principale vulnus che è quello per cui se pe rgli umani il diritto principale e quello alla vita per gli animali ancora non si può sostenere la medesima aspettativa.

Qualsiasi forma di protezione che ci sforziamo di promuovere sconta inevitabilmente un limite che è quello per cui il grado di sofferenza è comunque deciso dall'umano. In altre parole vi è un forse ineliminabile paradosso che è quello per il quale noi umani parliamo dei non umani con quello che pensiamo noi di loro. Non per quello che interessa loro ma per quello che a noi interessa di loro. Ineliminabile nella misura in cui e con il limite, ci si augura superabile, che l'etologia riesca sempre più a farci comprendere quella che è una continua evoluzione qualitativa degli esseri non umani. Nessuno escluso. E tenendo conto che questi non sono nella possibilità di comunicare con noi ma solo tra loro, rende la sfida affascinante.

Avv. Filippo Portoghese

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