La puntata n. 20 di "Short Stories" è dedicata ai casi mediatici più importanti degli ultimi venti anni analizzati da una grande giornalista televisiva e da un notissimo magistrato
di Paolo M. Storani - Ci eravamo lasciati con il volto di Domenico Iannacone, il viandante tv che non giudica mai, con il giudice Elvio Fassone, autore di "Fine pena: ora" per Sellerio editore; con Sergio Endrigo, esule da Pola e con la prosa ineguagliabile (che insegna a scrivere) di Raymond Carver; ora dedico la puntata n. 20 della rubrica "Short Stories" ad un libro che ho ricevuto in anteprima e che ho divorato letteralmente.

Il primo pensiero è andato al 10 giugno 1981 quando Alfredino Rampi, sei anni, il "bambino di Vermicino", cadde in un pozzo artesiano nei pressi di Frascati e a nulla valsero l'impegno estremo di un piccolo, grande uomo di origine sarda, da poco scomparso, Angelo Licheri, e la vicinanza istituzionale del Presidente-partigiano Sandro Pertini.

Valerio de Gioia mi ha, dunque, inviato la sua ultima fatica che ha condiviso con il volto del TG1 Adriana Pannitteri, un carissimo Amico giudice e una prestigiosa giornalista e scrittrice che... sa di buono, per niente diva come certe inavvicinabili anchorwomen, che mi appare davvero come una persona di casa e alla quale si vuole bene naturalmente e si offrirebbe il caffè se solo la tecnologia lo consentisse.

Con la mia tecnica di scandaglio veloce rinvengo nel volume tutti i casi dei quali avrei voluto leggere: Franzoni, Parolisi, Ciontoli, Bossetti, delitto dell'Olgiata, finanche l'amatissimo (da Valerio de Gioia e da me) diritto all'oblio del ciabattino sardo che ha suscitato l'attenzione anche del postfatore Klaus Davi.

Quella che segue è la recensione di "Short Stories" al tema delle sentenze catodiche. (NB: il libro sarà presentato su ZOOM nell' Evento formativo gratuito del 24 febbraio 2022)

IN NOME DEL POPOLO TELEVISIVO

Da Cogne ai giorni nostri

Un libro di Valerio de Gioia e Adriana Pannitteri


Frrrrrrrrr con il pollice (il mio rapporto tattile, fisico con i libri) cerco di saggiare la precisione del taglio delle 208 pagine che compongono «In nome del popolo televisivo», Vallecchi Firenze editore.

Mi piace la livrea di colore giallo, ma proprio quella gradazione calda sull'ocra che non ha l'asprigno del limone.

Annuso il profumo dei fogli del nuovo arrivato nella mia debordante collezione.

Controllo la copertina, sobria, niente infingimenti, ma una bilancia a due piatti che pende dalla parte in cui sono effigiati quattro televisori di quelli portatili di una volta, dell'epoca in cui la vacanza si chiamava villeggiatura, semplice ma duratura, tra piadina romagnola, pedalò, densità umana accatastata a stretto contatto e incubo per la fantomatica, misteriosa e fatale congestione postprandiale entro due ore dopo il pasto; le telefonate non iniziavano con «dove sei» perché l'interlocutore stava sempre e soltanto nello stesso posto.

Mi dirigo subito alla fine del libro, per un mio vezzo: debbo togliermi la curiosità, sapere immediatamente dov'è stato stampato.

Ah, bene, nello stabilimento di Santarcangelo di Romagna che mi è molto caro perché vi uscì, tanti anni fa, il mio primo libro che la casa editrice Maggioli mi chiese su un nuovo istituto giuridico.

Prefazione di Massimo Bernardini che adoro: il suo «Tv Talk» è lo show-magazine più raffinato della Rai, per anni non ne ho persa una puntata, anche se rimasi deluso quando disse che Rino Gaetano, un mio mito immortale, compagno ideale, amico raro che - come scrive Carmine Abate in "Gli anni veloci", ed. Mondadori, "canta e ama la vita", non era poi granché: opinioni radicalmente divergenti.

Ora divoro il volume perché gli Autori promettono (e mantengono) meraviglie; poi, deciderò qual è il posto più adatto per collocarlo: sì, perché bisogna fare attenzione a dove si mette il nuovo arrivato; gli altri libri potrebbero rivendicare una primazia e rumoreggiare di notte per non farvi riposare. Forme di protesta. Il libro non è un oggetto qualsiasi e la vicinanza forzata lascia affiorare stridori e incompatibilità. 

Comunque, penso che nella scansia tra Carlo Lucarelli-Massimo Picozzi, «Tracce criminali», Carlotta Conti, «Processo mediatico e processo penale», e il compianto Oreste Flamminii Minuto, già presidente della Camera Penale di Roma, «Troppi farabutti, il conflitto tra stampa e potere in Italia», l'opera di Adriana e Valerio (che non è un libro di passaggio) non dovrebbe correre troppi rischi.


Compito non agevole discettare di verità processuale nell'era post sentenza Franzese, vigoroso spartiacque in tema di accertamento del nesso di causalità.


Indubitabilmente tra le varie tipologie di processo, quello mediatico è il più popolare, in tutti i sensi.

Dai plastici di Cogne nel salotto del leggendario, sacerdotale Bruno Vespa in poi, vocaboli un tempo riservati a noi operatori del settore, quali «dispositivo», «capacità di intendere e di volere», «esigenze cautelari», «riesame», «revisione» e «rito abbreviato» sono entrati nel lessico comune.

Al bar tra la mitica, iconica «Luisona», pasta putrefatta/indigeribile («una pastina bianca e nera, con sopra una spruzzata di granella di duralluminio») uscita dalla fervida e surreale fantasia di Stefano Benni e un intervento del VAR regolarmente sbagliato e una rabona, dallo spagnolo "rabo", coda, azzeccata (da antologia quelle di Dieguito Maradona ma anche Bonazzoli padroneggia il genere raro), hanno fatto capolino liti furibonde sulla colpevolezza di Bossetti o di Stasi. Prima ancora Annamaria Franzoni: possibile che una madre possa aver ucciso il proprio piccolo Samuele? E il pigiama indossato a rovescio? E gli zoccoli?

"L'estate di Garlasco" di Francesco Caringella, edito da Mondadori, è la ricostruzione di un altro delitto che ha sconvolto l'Italia.

La competenza giuridica popolare si è talmente elevata da incidere sulle scelte dello stesso legislatore: nell'aprile del 2019 (ahimé ci ho lavorato su anch'io quale consulente parlamentare), quasi a voler tacitare la diffusa lamentela sulle condanne eccessivamente esigue per gli assassini, è stata esclusa la possibilità per l'imputato di reati punibili con la pena dell'ergastolo di scegliere il giudizio abbreviato da cui consegue una automatica e significativa riduzione della pena.

Un provvedimento legislativo, dunque, ha accolto l'istanza di coloro che consideravano la diminuzione della pena aberrante e in contrasto con la coscienza sociale.

I più maliziosi, tuttavia, ne hanno dato una lettura diversa sostenendo che la riforma è stata invocata per impedire all'imputato di sfuggire alla pubblicità del dibattimento: troppo facile, si è detto, farsi giudicare «allo stato degli atti», senza la celebrazione di quelle udienze che vedono sfilare testimoni e consulenti che appassionano il pubblico. Il linguaggio tecnico ha fatto subito presa sul quisque de populo che vi ricorre non solo per darsi un tono ma anche per ammantare di competenza la propria opinione.

L'uomo medio avverte la necessità di dover dire la sua in ordine alle responsabilità connesse a un fatto delittuoso e non importa se così facendo anticipa valutazioni che spettano alla sola autorità giudiziaria.

I giudici vengono considerati detentori di una sola delle tante verità - e non a caso, da un po' di tempo chiamata, con termine dispregiativo, «processuale» - che, peraltro, non è neppure la più avvincente.

La frase «lasciamo che la giustizia faccia il suo corso» è ormai un lontano ricordo.

La sacralità, che per oltre 2000 anni, ha accompagnato la figura del magistrato - si pensi che nella Roma arcaica la giustizia era amministrata da un Pontefice, una sorta di esperto di tutto, antesignano dello spettatore televisivo, depositario della sapienza giuridica - lascia il posto alla laicità del nuovo collegio giudicante.

Nella grande aula virtuale in cui si celebra il processo mediatico l'abbonato appoltronato pretende un posto in prima fila.

Si lascia guidare, con fiducia, dalla mano ferma e sicura del conduttore della trasmissione televisiva.

Questi, del resto, con raffinata maestria, consente agli ospiti di rappresentare scenari talvolta incredibili o indicare piste non battute dagli investigatori con l'obiettivo di tenere alto l'interesse su quel caso.

La generalizzata passione per la cronaca giudiziaria, attestata dagli ascolti televisivi, condiziona i palinsesti: è tutto un fiorire di trasmissioni che, già dal titolo, rendono evidente come tre gradi di giudizio non siano sufficienti per giungere alla verità.

«Che vogliono questi giudici… lasciate fare a noi!» sembrano dire i numerosi e prestigiosi invitati dai curricula altisonanti.

L'accertamento definitivo, al quale si perviene all'esito del lungo e complesso giudizio, vale più o meno quanto l'opinione estemporanea di un ospite, che magari non ha letto una riga degli atti processuali.

Tra la giustizia terrena e quella divina, alla quale un tempo si era soliti demandare l'accertamento della verità sostanziale - che, per sua natura, può sfuggire alla capacità umana - si inserisce quella dell'etere che, con tutti i suoi limiti, è certamente la più coinvolgente, suggestiva e appassionante.

Alla guida del plotone di opinionisti, talvolta privi di competenza giuridica ma forti di una buona dialettica e della capacità di far leva sui sentimenti degli ascoltatori, si affacciano, con orgoglio, nuove figure professionali.

Ciò che conta, alla fine, è convincere l'opinione pubblica.

Non importa se per raggiungere questo obiettivo si debba alzare il tono della voce contro chi dissente o non la pensa alla stessa maniera. Per non parlare di chi invita a valutazioni di maggiore prudenza.

Cautela e ponderatezza non sempre sono considerati valori.

Appaiono più come un segno di debolezza. Tanto più è azzardata l'ipotesi proposta tanto più verrà rilanciata - oggi anche via social - in un tam tam che la rafforza, la accresce così da attribuirle credibilità.

L'oratore televisivo, peraltro, parte avvantaggiato: non deve argomentare le proprie conclusioni e può anche limitarsi a esporre idee o intuizioni.

Anzi, tanto più sono dissonanti rispetto a quelle che hanno ispirato gli inquirenti o che sono state sposate dai magistrati, tanto più verranno apprezzate sul palcoscenico tv.

La televisione è un acquario che tende a ingigantire l'immagine di chi vi si immerge.

Il criminologo, a dispetto della rilevanza che ha assunto nell'immaginario collettivo, che lo vede quale unico detentore di cognizioni di ordine sociologico, psicologico, medico-legale che gli consentono di ricostruire la dinamica dei fatti violenti, nel processo penale italiano ha un ruolo tutt'altro che primario.

Può intervenire nella fase delle indagini preliminari, quale consulente degli organi inquirenti, al fine di analizzare il comportamento criminale, oppure dei difensori nelle indagini difensive.

Importante, senza dubbio, è l'esame del locus commissi delicti: muovendo dall'analisi psicologica del comportamento umano e dalle informazioni provenienti dall'ambiente, il criminologo offre un'ipotesi delle ragioni che hanno indotto un soggetto a delinquere - movente - e alle caratteristiche della sua personalità.

Ricorderete il testo di Massimo Picozzi e Angelo Zappalà «Criminal profiling», ed. McGraw-Hill, 2002.

Tuttavia, la «profilazione criminale» o «definizione del profilo criminale» - in inglese offender profiling o criminal investigative analysis -, lungi dal sostituirsi alla tradizionale attività investigativa degli organi inquirenti, mira a offrire un contributo nella ricostruzione del profilo di soggetti criminali allo stato sconosciuti. Il criminologo, però, per quanto autorevole e coinvolto personalmente nell'attività di studio e ricerca, costituisce solo una voce che, sebbene qualificata, esprime un punto di vista personale, scientificamente accreditato ma personale.

Il processo mediatico, giuridicamente parlando, è un non processo.

Le garanzie per l'indagato/imputato, punto di arrivo di una faticosa evoluzione giuridico-culturale, non trovano applicazione.

Il processo mediatico viene di solito celebrato in assenza di contraddittorio.

La persona di cui si parla - sovente in termini tutt'altro che lusinghieri -, nell'immediatezza non ha la possibilità di replicare.

Non può dare la sua versione dei fatti. Non può difendersi.

Un ruolo centrale, poi, assumono le valutazioni personali, le dicerie, il pettegolezzo becero.

Ciò in aperto contrasto con la regola che, nel processo vero, vieta al testimone di deporre sulle voci correnti nel pubblico o di esprimere apprezzamenti personali.

Spesso le dichiarazioni rese ai media, da parte dell'indiziato/sospettato, non sono «assistite», nel senso che vengono raccolte in assenza del difensore.

Non viene neppure dato l'avvertimento, la cui mancanza porta alla inutilizzabilità in giudizio, della facoltà di non renderle.

Si tratta della cosiddetta «facoltà di non rispondere».

Il diritto al silenzio è da sempre riconosciuto all'indagato proprio per evitare che possa danneggiarsi, ossia aggravare la sua posizione. Questi, peraltro, deve essere pure avvisato che, se decide di dare una sua versione dei fatti, potrà essere utilizzata contro di lui.

Se davanti all'autorità giudiziaria o alle forze dell'ordine una persona non imputata - ovvero non sottoposta alle indagini - rende dichiarazioni dalle quali emergono indizi di colpevolezza a suo carico, l'autorità procedente ne interrompe l'esame.

A quel punto deve essere avvertita che, a seguito di tali dichiarazioni, potranno essere svolte indagini nei suoi confronti e invitata a nominare un difensore.

Si tratta di una tutela anticipata del diritto al silenzio e del diritto di difesa inteso come diritto a non collaborare con l'autorità che procede. Tutto questo al fine di non vedere compromessa la garanzia del nemo tenetur se detegere - principio di antica e consolidata tradizione -, secondo cui nessuno può essere obbligato ad affermare la propria responsabilità penale, ad auto-incriminarsi.

Queste garanzie non sono previste per le dichiarazioni rese nel corso delle interviste.

E questo è ancora più aberrante se si pensa che si tende ad attuare la prima garanzia tramite i mezzi di informazione: difesa mediatica per l'appunto.

Il sospettato, ma talvolta anche l'indiziato, avverte la necessità di dire la sua tramite i mezzi di informazione così da rendere chiara la propria estraneità ai fatti.

Si tratta di una strategia difensiva discutibile, spesso controproducente.

Non di rado, le dichiarazioni rese nel corso di trasmissioni televisive sono refluite nelle motivazioni dei provvedimenti cautelari o delle sentenze di condanna.

I giudici, in alcuni casi, si sono ulteriormente convinti della responsabilità del dichiarante proprio sulla scorta delle lacune o delle contraddizioni emergenti dalle interviste.

Il racconto dettagliato - secondo una istintiva tendenza a ritenere che una esposizione è più credibile quanto più è particolareggiata -, viene poi passato al setaccio da parte degli inquirenti. Il vaglio avviene alla luce degli elementi già a loro disposizione.

Si pensi a colloqui oggetto di intercettazione telefonica o ambientale di cui, ovviamente, l'intervistato non è a conoscenza o almeno non dovrebbe esserlo.

Non sono mancati casi in cui, a inguaiare l'improvvido dichiarante è stata una circostanza, dallo stesso riferita che, in quanto non ancora resa pubblica, poteva essere conosciuta dal solo autore del crimine.

Tecnicamente queste dichiarazioni entrano nel processo come documenti provenienti dall'imputato.

Una norma del Codice di procedura penale lo consente.

Una parte della giurisprudenza - Tribunale di Palermo, 21 maggio 1996 -, tuttavia, opera un distinguo tra interviste televisive e interviste rilasciate ai giornali: solo le prime sono ammesse nel processo penale e non le seconde.

Le registrazioni audiovisive, prive del filtro della sintesi di chi riporta le dichiarazioni su carta, garantirebbero, secondo questa interpretazione, la completa e fedele riproduzione delle affermazioni dell'imputato.

La cronaca giudiziaria, in particolare, deve rispettare dei limiti rigorosi: l'eventuale racconto in chiave colpevolista, in spregio al principio di presunzione di non colpevolezza garantito dalla Costituzione, può costituire fonte di responsabilità, non solo per l'intervistato ma anche per il conduttore della trasmissione e gli altri ospiti della puntata qualora non prendano le distanze dalle dichiarazioni assunte come lesive della reputazione dell'indagato.

Secondo la Cassazione, non possono mai essere espresse valutazioni autonome rispetto alle indagini tali da orientare a qualificare come colpevole l'imputato.

Devono essere evitate ricostruzioni, analisi, valutazioni che prescindano dai risultati dell'attività investigativa.

Resta fermo il diritto/dovere di narrare fatti già accaduti ma senza confonderli con prognosi su eventi a venire e senza indulgere a narrazioni o valutazioni «a futura memoria».

Il mancato rispetto di queste elementari regole porta alla celebrazione di un processo agarantista, il cui unico fine è quello di suggestionare la collettività.

Gli stessi giudici di legittimità hanno evidenziato che, secondo un fatto di costume oggi accettato, è consentito pure rivisitare in talk show televisivi gravi fatti delittuosi oggetto di indagini e persino di processo, nella ricerca di una verità mediatica in parallelo a quella sostanziale o a quella processuale.

Iniziative di questo genere - proseguono gli Ermellini di Piazza Cavour - riscuotono, a quanto pare, apprezzabili indici di gradimento e sembrano inserirsi in un singolare fenomeno mediatico che tende a offrire una realtà immaginifica o virtuale, capace, per forza di persuasione, di sovrapporsi - se recepita in modo acritico dagli utenti - a quella sostanziale o, quanto meno, a collocarsi in un ambito in cui i confini tra immaginario e reale diventano sempre più labili e non facilmente distinguibili.

Gli esposti limiti all'esercizio del diritto di cronaca giudiziaria sembrano segnare la fine della giustizia dell'etere, delle catodiche camere di consiglio e delle sentenze rese «in nome del pubblico italiano».

Tutto questo segnerà la fine del processo mediatico? Possiamo ragionevolmente escluderlo.

Quello mediatico è il processo più seguito perché è il più credibile.

Paradossalmente è quello che rimane più a lungo impresso nella memoria delle persone. Ogni vicenda processuale è infatti legata in modo indissolubile a un periodo della nostra vita (scolastico, lavorativo), un ricordo che ognuno porterà con sé di una vicenda, drammatica, nella quale per fortuna si è rimasti coinvolti solo dal punto di vista emotivo.

Per assurdo è come se i nostri problemi quotidiani venissero ridimensionati rispetto all'orrore di certi crimini. Il processo mediatico, assolvendoci da ogni nostro piccolo peccato, ha una inaspettata funzione catartica.

Che sarà mai un litigio condominiale, automobilistico, una reazione violenta sul lavoro quando, una volta a casa, la televisione ci racconta i veri drammi.

Questa, forse, è la vera ragione alla base del successo del processo mediatico e della sua, ne siamo certi, longevità.

Ad ogni modo, mille grazie e un mucchio di complimenti ad Adriana e a Valerio!


Autore: Paolo Maria Storani

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