Il C.N.F chiarisce che l'autorevolezza di un avvocato non si evince solo dalla sua preparazione, ma dall'onestà e dalla correttezza personale

Un avvocato autorevole è preparato ma anche onesto e corretto

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Il C.N.F nella sentenza n. 170/2020 (sotto allegata) emessa al termine del ricorso di un avvocato accusato di aver agito in conflitto d'interessi con il proprio cliente, precisa che la norma che punisce tale condotta è finalizzata a garantire la posizione di terzietà dell'Avvocato nei confronti del cliente e della collettività. Terzietà che deve essere chiara, per cui anche solo l'apparenza di un conflitto contravviene alla norma. Per questo è importante chiarire che l'autorevolezza di un avvocato non si evince solo dalla sua preparazione e dal suo talento, ma anche dalla sua personale condotta che deve essere improntata a onestà e correttezza. Per comprendere al meglio, vediamo ora le varie fasi della vicenda e le ragioni per le quali il CNF è giunto a una simile conclusione.

Conflitto d'interessi per l'avvocato che agisce contro il suo cliente

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Il C.O.A di Trieste apre un procedimento nei confronti di un avvocato iscritto, accusato di aver agito in conflitto d'interessi con il proprio cliente. In pratica l'avvocato ha assistito un cliente, ha poi agito contro lo stesso per le proprie spettanze professionali, rinunciando ai precedenti mandati. Lo ha poi rappresentato contestando tuttavia in opposizione il titolo in forza del quale ha agito nella procedura esecutiva presso terzi contro di lui, si è posto in una posizione avversa alla collega di studio, a cui ha fatto assistere il vecchio cliente, per poi riprendere il mandato una volta concluso il procedimento esecutivo. Il C.O.A informa naturalmente l'avvocato della segnalazione pervenuta nei suoi confronti, lo invita a chiarire la sua posizione e invia gli atti al Consiglio Distrettuale di disciplina.

Non sussiste conflitto d'interessi: l'avvocato vanta crediti professionali

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L'avvocato contesta la fondatezza di quanto sostenuto dall'esponente in quanto la sussistenza dei suoi diritti di credito nei confronti del segnalante derivano dall'attività professionale svolta nell'interesse di costui. Contesta poi la violazione del dovere di verità e fa presente di aver dismesso il mandato formalmente il 6.11.2013 per riassumerlo solo dopo la conclusione della procedura esecutiva presso terzi, come richiesto espressamente dal cliente.

Si deve rinunciare al mandato quando si intende agire contro il cliente

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Il Consiglio Distrettuale di Disciplina, conclusa l'istruttoria, ritiene integrata la violazione degli artt. 1,5,6 e 37 del Codice Deontologico del 1997 applicabile ratione temporis (ora art. 7 e 24, comma 1, Codice Deontologico vigente) e irroga la sanzione della sospensione di mesi tre.

"In decisione è sottolineato come la concatenazione temporale di apparenti rinunce al mandato e l'immediata riassunzione dell'incarico subito dopo il termine dell'azione esecutiva rendesse evidente l'intento dell'odierno ricorrente di raggirare la norma deontologica che impone di rinunciare al mandato nei confronti del cliente nel momento in cui vi è l'intenzione di agire nei suoi confronti per il recupero di un credito professionale. E ancora, a fronte di una tale solo fittizia rinuncia al mandato, risultasse innegabile che l'incolpato avesse agito in palese conflitto d'interessi con il cliente nel momento in cui era intervenuto nell'esecuzione, pur mantenendo i legami professionali con sig. (Tizio) facendolo peraltro assistere da una collega di studio (Avv. (Mevia) nella stessa procedura in cui egli era creditore interveniente. Tali circostanze, veniva evidenziato in decisione, risultavano chiaramente confermate dalla testimonianza resa dalla stessa avv. (Mevia) in dibattimento all'udienza del 10 marzo 2017, da cui si evinceva che l'avv. (Ricorrente) era perfettamente consapevole del conflitto d'interessi sussistente tant'è che aveva deciso d'incaricare la predetta collega (Mevia) di assistere il (Tizio) per fornire "formalmente" un diverso difensore. Da ultimo la decisione veneziana evidenzia l'irrilevanza che una tale strategia fosse concordata o autorizzata dal cliente posto che il divieto di esercizio della professione in conflitto d'interessi deve essere considerato un principio generale di decoro e dignità della professione inderogabile, rispetto al quale del tutto irrilevante doveva risultare l'eventuale accordo del cliente."

L'avvocato deve essere corretto nel suo comportamento personale

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L'avvocato ricorre quindi al C.N.F, chiedendo il proscioglimento dalle incolpazioni contestate per insussistenza dei fatti e in via subordinata, una punizione più mite, con esclusione di una sanzione sospensiva, deducendo a sostegno delle sue richieste:

  • "la violazione e falsa applicazione delle norme di cui agli artt. 1,5,6 e 37 del Codice Deontologico Forense e l'omesso esame di un fatto decisivo";
  • l'errata determinazione della sanzione."

Per il CNF, che rigetta il ricorso con la sentenza n. 170/2020, il primo motivo del ricorso non coglie nel segno. La fattispecie che disciplina il conflitto d'interessi avvocato/cliente lo configura come un illecito di pericolo "teso a garantire l'assoluta terzietà dell'avvocato al di sopra di ogni dubbio. (…) l'autorevolezza di un avvocato, consapevole del suo alto ruolo ("garantire al cittadino l'effettività della tutela dei diritti", recita la nostra legge professionale) risieda non solo e non tanto nella sua preparazione, nel suo personale talento ma nell'onestà e correttezza del suo personale comportamento. La corrispondenza di quest'ultimo ai canoni deontologicamente stabiliti è a tutela non del singolo avvocato, ma dell'intera avvocatura, ed è per tale motivo che il comportamento del professionista non soltanto debba essere rispettoso di tali canoni, ma debba altresì sempre apparire tale."

Da rigettare anche il secondo motivo, alla luce della reiezione del primo motivo e della e correttezza delle contestazioni disciplinari mosse all'avvocato ricorrente.

Scarica pdf CNF sentenza n. 170/2020

Foto: 123rf.com
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