Per la Cassazione, il consenso dei dipendenti non legittima le telecamere sul posto di lavoro. Il datore è la parte forte del rapporto: serve il confronto con i sindacati

di Annamaria Villafrate - La Cassazione con la sentenza n. 50919/2019 (sotto allegata) chiarisce, dichiara inammissibile il ricorso di un datore, precisando che il consenso scritto o orale concesso dai lavoratori dipendenti non rende legittima l'installazione delle telecamere sul posto di lavoro. I lavoratori sono la parte debole del rapporto, per questa la legge richiede un preventivo confronto con le rappresentanze sindacali o l'autorizzazione dell'Ispettorato del lavoro.

Telecamere per monitorare lavoratori

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Il giudice di primo grado condanna l'imputato, previa concessione delle attenuanti generiche, all'ammenda di 1.000,00 euro perché responsabile di aver violato gli artt. 114 e 171 del dlgs n. 196/2003 e gli artt. 4, comma 1 e 38 della legge n. 300/ 1970. L'imputato ha infatti installato nella propria azienda 16 telecamere per monitorare l'accesso al locale, utilizzarlo come deterrente per eventi criminosi e controllare i lavoratori nello svolgimento delle loro mansioni, senza un preventivo accordo sindacale o l'autorizzazione dell'Ispettorato nazionale del lavoro.

Il Tribunale rileva come l'imputato, sebbene abbia rimosso l'impianto dopo l'avvenuta contestazione, non ha pagato l' oblazione amministrativa. Il giudicante ha inoltre considerato che l'imputato ha installato le telecamere prima di vedersi concedere l'autorizzazione dall'Ispettorato del lavoro.

Non ha valore il fatto che l'imputato abbia depositato una liberatoria sottoscritta da tutti i dipendenti inviata all'Ispettorato. Il documento non solo è stato formato dopo la materiale installazione delle telecamere ma, in ogni caso, esso non può sostituire l'accordo sindacale o l'autorizzazione dell'organo pubblico.

Il ricorso in appello dell'imputato

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Ricorre quindi in appello l'imputato lamentando la manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata, perché il Tribunale non ha considerato che il datore gestisce un locale pubblico, tale da giustificare, nell'interesse dei dipendenti, un controllo finalizzato a impedire eventi avversi. Il fatto poi che i dipendenti abbiano dato il proprio consenso deve, a parere dell'imputato, escludere la rilevanza penale della condotta.

Il consenso dei dipendenti non legittima l'installazione delle telecamere

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La Corte precisa prima di tutto che la sentenza di primo grado non poteva essere appellata. Ricorda poi che l'art 4 della legge n. 300/1970 prevede la possibilità per il datore d'installare un circuito di video sorveglianza che comporta il controllo a distanza dei lavoratori solo se sussistono ragioni di sicurezza o di tutela del patrimonio aziendale, previo accordo sindacale o previo rilascio di apposita autorizzazione dell'Ispettorato del lavoro.

Per la Cassazione non rilevano la ragione della sicurezza addotta da datore di lavoro e neppure che costui non abbia avuto personalmente accesso alle riprese a cui era addetto un terzo.

Per quanto riguarda poi l'autorizzazione rilasciata dai dipendenti dopo la contravvenzione, gli Ermellini rilevano come: "Deve, al proposito rilevarsi che, onde attribuire alla indicata manifestazione di volontà efficacia scriminante, trattandosi di un elemento negativo della fattispecie (nel senso che si ha reato in quanto la condotta criminosa sia stata posta in essere senza il consenso di chi poteva validamente disporre del diritto in tal modo leso), il consenso dell'avente diritto non solo deve perdurare sino al termine della consumazione dell'illecito, ma deve essere stato espresso in un momento anteriore a detta consumazione, non potendo valere la postuma dichiarazione liberatoria dell'avente diritto ad escludere la rilevanza penale ad un fatto che già si sia perfezionato come illecito penale in tutti i suoi elementi."

Non è tutto, la Suprema Corte chiarisce che "non sarebbe stato possibile ritenere scriminata la condotta dell'imputato neppure laddove la stessa, in assenza della intesa in sede sindacale ovvero della autorizzazione dell'Ispettorato del lavoro, fosse stata preceduta dalla dichiarazione liberatoria rilasciata dai dipendenti." Questo perché "l'installazione in azienda, da parte del datore di lavoro, di impianti audiovisivi - che è, appunto, assoggettata ai limiti previsti dall'art. 4 dello Statuto dei lavoratori anche se da essi derivi solo una mera potenzialità di controllo a distanza sull'attività lavorativa dei dipendenti - deve essere preceduta dall'accordo con le rappresentanze sindacali (…) la ragione per la quale l'assetto della regolamentazione di tali interessi è affidato alle rappresentanze sindacali o, in ultima analisi, ad un imparziale organo pubblico, con esclusione della possibilità che i lavoratori, uti singuli, possano autonomamente provvedere al riguardo, risiede, ancora una volta, nella considerazione della configurabilità dei lavoratori come soggetti deboli del rapporto di lavoro, questione che viene in rilievo essenzialmente con riferimento all'affermazione costituzionale del diritto al lavoro e con riferimento alla disciplina dei rapporti esistenti tra il datore di lavoro ed il lavoratore, sia nella fase genetica della sua instaurazione sia in quella funzionale della gestione del rapporto di lavoro."

"Da tutto ciò deriva come non abbia alcuna rilevanza il consenso scritto o orale concesso dai singoli lavoratori, in quanto la tutela penale è apprestata dalla disposizione ora violata per la salvaguardia di interessi collettivi di cui, nel caso di specie, le rappresentanze sindacali, per espressa disposizione di legge, sono esclusive portatrici, in luogo dei lavoratori che, a causa della posizione di svantaggio nella quale versano rispetto al datore di lavoro, potrebbero rendere un consenso viziato."

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