Il CNF ribadisce l'obbligo del legale di fatturare tempestivamente e contestualmente alla riscossione dei compensi. Irrilevante l'eventuale ritardo nell'adempimento in parola

di Lucia Izzo - L'avvocato ha l'obbligo, sanzionato dall'art. 16 e 29 del Codice Deontologico Forense, di emettere fattura tempestivamente e contestualmente alla riscossione dei compensi, restando irrilevante l'eventuale ritardo nell'adempimento in parola, non preso in considerazione né dal codice deontologico né dalla legge statale (DPR 633/72).


Lo ha precisato il Consiglio Nazionale Forense, nella sentenza n. 1/2019 (sotto allegata) pronunciandosi sulla vicenda di due legali accusati di avere trattenuto indebitamente, a titolo di rimborso spese legali, una parte delle somme ricevute dal cliente.


Il caso

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I due venivano condannati dal competente COA alla sospensione dall'esercizio della professione forense per mesi due: durante il procedimento disciplinare era emerso, infatti, che gli avvocati avevano ricevuto dal cliente un importo destinato all'estinzione di un mutuo contratto con un istituto bancario, ma che detto importo non era stato interamente utilizzato per il fine cui era stato elargito, ma al contrario trattenuto dagli avvocati a titolo di rimborso per spese legali.


Da qui il ricorso dei legali con cui viene eccepita la prescrizione dell'azione disciplinare e, comunque, l'insussistenza dell'illecito disciplinare addebitato. Il CNF, invece, rileva come il COA avesse deliberato l'apertura del procedimento in data 22/12/2012, decorsi appena 3 anni dalla cessazione dell'illecito, per cui la prescrizione non era maturata.


Il dies a quo per la prescrizione dell'azione disciplinare, rammenta il CNF, va individuato nel momento della commissione del fatto solo se questo integra una violazione deontologica di carattere istantaneo che si consuma o si esaurisce al momento stesso in cui viene realizzata; ove invece la violazione risulti integrata da una condotta protrattasi e mantenuta nel tempo, la decorrenza del termine prescrizionale ha inizio dalla data della cessazione della condotta (CNF, sent. 68/2015).

Illecito disciplinare: sufficiente la volontarietà del comportamento

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La decisione impugnata viene per quanto riguarda la mancata fatturazione dei compensi professionali trattenuti (euro 8.000) e la omessa informativa del cliente, in difetto di qualsiasi elementi, anche indiziario, di segno contrario rispetto a quelli posti a fondamento delle decisione.


In particolare, non merita accoglimento la censura con cui i ricorrenti rilevano come la violazione addebitata sia inesistente non solo dal punto di vista oggettivo, ma anche dal punto di vista soggettivo essendo chiara la mancanza di volontarietà della condotta disciplinarmente illecita.

Secondo costante giurisprudenza disciplinare, infatti, ai fini della sussistenza dell'illecito disciplinare, è sufficiente la volontarietà del comportamento dell'incolpato. Pertanto, sotto il profilo soggettivo, basta la "suitas" della condotta intesa come volontà consapevole dell'atto che si compie, dovendo la coscienza e volontà essere interpretata in rapporto alla possibilità di esercitare sul proprio comportamento un controllo finalistico e, quindi, dominarlo.


L'evitabilità della condotta, spiega il CNF, delinea la soglia minima della sua attribuibilità al soggetto, intesa come appartenenza della condotta al soggetto stesso (cfr. CNF, sent. 267/2016).


Sul punto è sufficiente ribadire che per l'imputabilità dell'infrazione disciplinare non è necessaria la consapevolezza dell'illegittimità dell'azione, dolo generico o specifico, ma è sufficiente solo la volontarietà (c.d. suitas) con la quale è stato compiuto l'atto deontologicamente scorretto.

Presunzione di colpa

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Come precisato dalle Sezioni Unite di Cassazione (ord. n. 22521/2016), in materia di illeciti disciplinari, la coscienza e volontà delle azioni o omissioni di cui all'art. 4 del nuovo Codice Deontologico consistono nel dominio anche solo potenziale dell'azione o omissione, che possa essere impedita con uno sforzo del volere e sia quindi attribuibile alla volontà del soggetto.


Il che fonda la presunzione di colpa per l'atto sconveniente o addirittura vietato a carico di chi lo abbia commesso, lasciando a costui l'onere di provare di aver agito senza colpa. Sicché l'agente resta scriminato solo se vi sia errore inevitabile, cioè non superabile con l'uso della normale diligenza, oppure se intervengano cause esterne che escludono l'attribuzione psichica della condotta al soggetto.


Non può dunque parlarsi di "imperizia incolpevole" ove si tratti di professionista legale e quindi in grado di conoscere e interpretare correttamente l'ordinamento giudiziario e forense.

Scarica pdf sentenza Cnf n. 1/2019

Foto: 123rf.com
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