Ai parenti della vittima in coma per tre anni devono essere riconosciuti i danni riportati nel periodo in cui assistono il parente e quelli causa morte

di Annamaria Villafrate - La Cassazione con l'ordinanza n. 28168/2019 (sotto allegata) enuncia un importante principio, accogliendo il terzo motivo del ricorso avanzato dai congiunti della vittima di un incidente, rimasto in stato vegetativo per tre anni e poi morto a causa delle lesioni. In questi casi, precisa la Cassazione, ai parenti che assistono la vittima di giorno e di notte non spetta solo il risarcimento del danno per la morte del congiunto. Ad essi vanno riconosciuti anche i danni non patrimoniali subiti per l'impossibilità di condurre, a causa dell'impegno e dello stato di angoscia, una normale vita sociale e relazionale per tutto il periodo in cui prestano assistenza al parente.

La vicenda processuale

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Nel 2009 i congiunti ed eredi di un soggetto esponevano che il loro caro era stato investito da un veicolo condotto dalla convenuta, in seguito al quale riportava gravi lesioni che lo riducevano dapprima in uno stato vegetativo per tre anni e che poi lo conducevano alla morte. Per tali ragioni chiedevano la condanna al risarcimento dei danni. Il giudice di primo grado accoglieva la domanda, attribuendo alle parti un concorso di colpa paritario. La sentenza però veniva appellata e il giudice di secondo grado si pronunciava riconoscendo alla vittima un concorso di colpa del 75%, tenendo conto, nella liquidazione del danno biologico patito, del tempo intercorso tra le lesioni e la morte e ritenendo corretta la liquidazione del danno non patrimoniale operata dal Tribunale in favore dei congiunti ed eredi del danneggiato.

Il ricorso degli eredi per il danno iure proprio

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Nel ricorso alla Suprema Corte di legittimità gli eredi lamentano con il terzo motivo del ricorso l'omesso esame di un fatto decisivo. Nel liquidare il danno da essi patito direttamente e a causa della morte del loro congiunto il Tribunale si sarebbe infatti limitato ad applicare i minimi previsti dalle tabelle di Milano senza tenere conto del fatto che tutti loro hanno prestato assistenza per tre anni consecutivi al loro caro, diventato totalmente incapace d'intendere e di volere e quindi completamente invalido. In tutto questo periodo, caratterizzato da sentimenti di pena e angoscia per le condizioni del parente, essi hanno dovuto rinunciare forzosamente a qualsiasi attività di tipo ricreativo e relazionale, perché costretti ad assistere continuamente il loro caro.

Danno non patrimoniale ai parenti che per assistere non fanno vita sociale

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La Corte di Cassazione ritiene fondato il terzo motivo di impugnazione degli eredi del de cuius precisando che nella quantificazione del danno non patrimoniale sofferto dai congiunti il giudice deve:

  • tenere conto delle conseguenze che l'uccisione di un congiunto non può non causare nelle persone di comune sentire che vivono una simile esperienza;
  • liquidare tale voce di danno con un criterio standard per garantire la parità di trattamento a parità di danno.
  • accertare se sussistono delle circostanze particolari che rendono il pregiudizio superiore rispetto ad altri casi. Nel valutare questo tipo di danno il giudice deve tenere conto delle "specifiche ricadute che l'evento doloroso della morte - della vittima primaria - ha determinato nella vita di ciascuno dei suoi congiunti o conviventi" e deve darne conto in una motivazione analitica e completa.

La Corte d'Appello ha ritenuto provato il fatto che i ricorrenti abbiano effettivamente assistito il parente per tre anni consecutivi dopo il sinistro, ma non ha preso in considerazione la possibilità di aumentare il risarcimento loro spettante perché in giudizio si sarebbero limitati a riferire uno stato di angoscia, pena e preoccupazione per le condizioni del congiunto, già elementi costituivi del danno.

Gli Ermellini però non sono d'accordo con le conclusioni del giudice di secondo grado. Essi precisano infatti che se un soggetto, dopo tre anni di coma, muore i parenti subiscono in realtà due tipi di danno: quella causata dal vedere il proprio caro sofferente e poi quella del lutto.

Erra quindi la Corte d'Appello quando ritiene che i danni sopra descritti siano la stessa cosa. I parenti della vittima hanno allegato di aver dato assistenza al loro caro per tre anni consecutivi, ragione per cui nel liquidare il danno agli stessi iure proprio avrebbe dovuto considerare sia i danni derivanti dall'aver assistito la vittima per tre anni rinunciando ad avere una vita, che quelli successivi e conseguenti alla morte.

La sentenza va quindi cassata e la corte d'Appello dovrà attenersi nel liquidare il danno ai congiunti al seguente principio di diritto: "il pregiudizio non patrimoniale patito dai prossimi congiunti di persona gravemente ferita, e consistito tanto nell'apprensione per le sorti del proprio caro, quanto nelle forzose rinunce indotte dalla necessità di prestare diuturna e prolungata assistenza alla vittima, è un danno identico per natura, ma diverso per oggetto, dal pregiudizio patito dalle medesime persone, una volta che il soggetto ferito sia venuto a mancare. Ne consegue che se una persona venga dapprima ferita in conseguenza di un fatto illecito, ed in seguito muoia a causa delle lesioni, nella stima del danno patito jure proprio dai suoi familiari il giudice deve tenere conto sia del dolore causato dalla morte, sia dalle apprensioni, dalle sofferenze e dalle rinunce patite dai suoi familiari per tutto il tempo in cui la vittima primaria fu invalida e venne da loro assistita."

Scarica pdf Cassazione ordinanza n. 28168/2019

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