di Lucia Izzo - Indipendentemente dall'esistenza di una normativa specifica, grava sul datore di lavoro un obbligo generale ex art. 2087 c.c. teso all'adozione di tutte le misure di sicurezza idonee a tutelare la salute dei dipendenti.
Pertanto, non sfugge alla condanna per risarcimento danni la USL che, in un periodo in cui la normativa antifumo non era stringente come lo è oggi, non ha impedito l'insorgenza di un cancro al dipendente costretto a condividere un piccolo ufficio con i colleghi fumatori, posto proprio di fianco alla stanza dove venivano effettuati esami radiologici.
Lo ha deciso la Corte di Cassazione, sezione lavoro, nella sentenza n. 21287/2019 (qui sotto allegata) respingendo il ricorso di una USL condannata dalla Corte d'Appello a risarcire di ben 200mila euro agli eredi di un dipendente deceduto, secondo i congiunti, a causa di un cancro determinato dall'esposizione al fumo passivo e ad agenti cancerogeni sul luogo di lavoro.
- Il caso
- Obbligo generale di tutela della salute dei dipendenti
- Fumo passivo: ASL responsabile per il cancro al dipendente
Il caso
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Nel dettaglio, l'uomo lavorava in un piccolo ufficio assieme ad altri due colleghi, entrambi fumatori, che conteneva altresì due macchine fotocopiatrici che aggravavano la condizione di insalubrità dell'ambiente. Senza contare che la insalubre stanzetta era proprio accanto al locale in cui si effettuavano esami radiologici.
La Corte d'Appello osservava come l'art. 1 della legge n. 584/75 vietava il fumo nelle corsie d'ospedale e nei locali chiusi adibiti a pubblica riunione e che il d.lgs. 626/64 all'art. 65 prevedeva divieto di fumo nei luoghi esposti ad agenti cancerogeni, come la segreteria del CPO dove lavorava il de cuius contigua al centro di radiologia.
Nel condannare l'USL, la Corte territoriale richiama l'art 2087 c.c. che obbligava il datore di lavoro ad attuare tutte le misure di sicurezza idonee a tutelare la salute dei lavoratori, indipendentemente dall'esistenza di norme esplicite che prescrivessereo determinate condotte. Pertanto, l'ASL avrebbe dovuto agire con misure per impedire o ridurre il danno, ad esempio utilizzando di locali idonei oppure degli aeratori.
In Cassazione, invece, la USL sottolinea come le conoscenze scientifiche al tempo dei fatti non erano tali da mettere in guardia i fumatori sui danni alla salute Fum e che, pertanto, doveva ritenersi che il datore di lavoro avesse adottato tutte le misure di prevenzione, diligenza e prudenza e le dovute cautele secondo le norme tecniche e di esperienza vigenti all'epoca, che non ponevano alcuna restrizione imperativa e tassativa in materia di fumo.
Obbligo generale di tutela della salute dei dipendenti
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Gli Ermellini ritengono di dover condividere le argomentazioni della Corte d'Appello. In presenza di eventi lesivi verificatisi in pregiudizio del lavoratore e causalmente ricollegabili alla nocività dell'ambiente di lavoro, si legge in sentenza, viene in rilievo l'art. 2087 del codice civile.
Si tratta di una norma di chiusura del sistema antinfortunistico che impone al datore di lavoro, anche dove faccia difetto una specifica misura preventiva, di adottare comunque le misure generiche di prudenza e diligenza, nonché tutte le cautele necessarie, secondo le norme tecniche e di esperienza, a tutelare l'integrità fisica del lavoratore assicurato.
Tale responsabilità datoriale, spiega il Palazzaccio, non è configurabile solo nell'ipotesi in cui il nesso causale tra l'uso di una sostanza e la patologia professionale non fosse configurabile allo stato delle conoscenze scientifiche dell'epoca, sicché non poteva essere prospettata l'adozione di adeguate misure precauzionali.
Fumo passivo: ASL responsabile per il cancro al dipendente
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Invece, nel caso di specie la Corte di merito ha correttamente ritenuto la USL responsabile, stante una situazione di accertata azione del fumo passivo in ambiente inidoneo allo svolgimento di attività lavorativa senza rischi per la salute dei lavatori.
Al di là dell'introduzione di specifiche norme contenenti divieti di fumo in ambienti diversi da quelli indicati nella normativa del 1975 e del 1994, precisa la Cassazione, doveva ritenersi pacifica, "specie da parte di una struttura sanitaria", la conoscenza dei rischi di fumo e dei raggi degli apparecchi esistenti nel contiguo locale adibito agli esami radiologici.
Pertanto, la condanna della USL va confermata in quanto il danno biologico derivato al defuto per effetto della esposizione al fumo dei colleghi di lavoro non era stato impedito con efficace predisposizione di misure preventive da parte del datore ai sensi dell'art. 2087 del codice civile.
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