Per la Cassazione scatta la sanzione amministrativa e non l'illecito di furto aggravato nei confronti di chi si impossessa delle acque pubbliche, ma senza mutarne la destinazione

di Lucia Izzo - In applicazione del principio di specialità, non commettono furto aggravato il titolare e il gestore del bar che, utilizzando un tubo di gomma, convogliano l'acqua da una fontana pubblica nel proprio esercizio commerciale.


Nei loro confronti scatta una semplice sanzione amministrativa poiché i due si sono limitati a impossessarsi di acque destinate alla pubblica fruizione con modalità diverse da quelle stabilite dall'ente gestore, ma non hanno mutato la destinazione impressa al bene o realizzato una vera e propria utenza abusiva che, invece, avrebbe determinato l'illecito.

Tanto emerge dalla sentenza n. 34455/2018 (qui sotto allegata) con cui la quinta sezione penale della Corte di Cassazione ha deciso per l'annullamento della sentenza impugnata, senza rinvio, non essendo il fatto previsto dalla legge come reato.


Nel dettaglio, i due imputati, rispettivamente gestore e titolare di un bar, erano stati condannati a sei mesi di reclusione e 200 euro di multa per il reato di furto aggravato, essendosi appropriati dell'acqua di proprietà del Comune per evitare di pagare gli esborsi relativi.


In concorso tra loro, gli imputati avevano realizzato un allaccio abusivo alla rete idrica comunale, collegando con un tubo in gomma una fontana pubblica a una vasca di 5mila litri, a sua volta collegata all'impianto idrico privato del bar medesimo.


Gli Ermellini sono chiamati a valutare se la condotta consistente nel prelievo di acqua pubblica da un punto di sbocco della rete idrica comunale (fontana pubblica) integri il delitto di furto aggravato oppure l'illecito amministrativo di cui all' art. 17 R.D. n. 1775 del 1933, come sostituito, dapprima, dall'art. 23 D.lgs. n. 152 del 1999 e, poi, dall'art. 96, comma 4, D.lgs. n. 152/2006.


Ripercorrendo l'evoluzione normativa in tema di acque, i giudici della Cassazione ritengono che l'impossessamento abusivo delle acque sotterranee e di quelle superficiali, anche raccolte in invasi o cisterne, integri esclusivamente l'illecito amministrativo di cui all'art. 23 del d.lgs. n. 152/1999, e non anche il delitto di furto, atteso che, per espressa previsione dell'art. 1, comma 1, D.P.R. n. 238/1999 tali beni appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico.

Illecito amministrativo impossessarsi delle acque senza mutarne la destinazione

Per quanto riguarda, invece, le acque già convogliate nell'acquedotto comunale, il collegio ritiene che occorra distinguere due ipotesi.

La prima, vede l'impossessamento realizzato mediante un vero e proprio allaccio abusivo, ossia mediante la costituzione di un'utenza, con il conseguente mutamento della destinazione impressa al bene dall'ente gestore delle risorse idriche (nonché, con il profitto consistente nel mancato esborso del controvalore dell'acqua consumata). In tal caso può verificarsi il reato di furto.

Diversa l'ipotesi in cui il bene sia già stato destinato da tale ente alla pubblica fruizione (per esempio, attraverso la sua erogazione, come nel caso in esame, mediante una fontanella pubblica), ma il privato cittadino ne usufruisca in violazione delle modalità stabilite.

Quindi, se la condotta del soggetto agente si sostanzia nell'impossessamento di acque destinate alla pubblica fruizione in misura eccessiva e con modalità diverse da quelle stabilite dall'ente gestore (senza che ciò comporti un mutamento della destinazione impressa al bene e la realizzazione di una vera e propria utenza abusiva), essa può integrare, per l'anzidetto principio di specialità, gli estremi dell'illecito amministrativo e non quelli del delitto di furto.

Per la Cassazione il giudice di prime cure, che aveva assolto gli imputati, aveva correttamente rilevato che "nel momento stesso in cui l'acqua fuoriesce dalla rete idrica comunale per essere gratuitamente erogata alla cittadinanza, viene in rilievo da una parte, l'interesse dell'ente pubblico all'erogazione e, dall'altra parte, l'interesse del privato al prelievo".

La stessa Corte Costituzionale (cfr. sent. n. 273/2010) ha ritenuto non irragionevole la scelta legislativa di sanzionare solo in via amministrativa eventuali comportamenti trasgressivi delle regole di utilizzo delle acque, giacché deve aversi primariamente riguardo al rapporto tra cittadini e P.A. nell'accesso a un bene che appartiene in principio alla collettività.

Ne consegue che, in questi casi, l'ente pubblico può regolamentare, e nella specie il Comune lo ha fatto, le modalità di fruizione, vietando in via amministrativa condotte di abusivo prelievo e prevedendo delle sanzioni.


Cass., V pen., sent. n. 34455/2018

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