Per il tribunale di S. Maria Capua Vetere addebitare "costi di cessazione del servizio" forfettizzati significa, di fatto, far pagare il recesso dal contratto, in contrasto con la legge

di Marina Crisafi - Il recesso dal contratto telefonico non deve comportare costi per gli utenti e soprattutto non possono essere addebitati "costi di cessazione del servizio" a forfait poiché ciò significherebbe, di fatto, prevedere un costo per il recesso, in netto contrasto con la legge. È quanto si ricava dalla recente e interessante sentenza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, giudice Dott. Luca Caputo (depositata il 10 marzo 2018 e sotto allegata).

La vicenda

Nella vicenda, la Wind proponeva appello avverso la sentenza del giudice di Pace di Caserta che aveva accolto la domanda di un utente tesa ad ottenere l'emissione di una nota di credito dell'importo di € 65,00, addebitato a fronte della disattivazione della propria utenza telefonica.

Per la compagnia telefonica, la sentenza era erronea, giacchè l'importo di 65 euro preteso dall'utente non costituiva un costo del recesso dal contratto, bensì il costo sostenuto dalla compagnia telefonica per procedere alla disattivazione della linea, da corrispondere a Telecom, unico proprietario delle reti telefoniche. Tale costo, inoltre, asseriva la Wind, era stato anche approvato da AGCOM e pubblicizzato nella fatturazione successiva alla relativa previsione, con possibilità per l'utente di recedere. Quanto alla mancata prova dei costi sostenuti, la compagnia sosteneva che, in considerazione dell'ingente numero di utenti, non era possibile documentare materialmente la parte di spesa impiegata per la migrazione di ogni utenza, non essendo frazionabili per singolo utente i costi sostenuti anche in termini di risorse umane, dal che deriva la previsione di un importo forfettario avallato e riconosciuto dalla stessa Autorità Garante.

Telefonia: no ai costi di cessazione servizio a forfait

Per il tribunale invece l'appello va rigettato. Come correttamente osservato dal giudice di prime cure, infatti, scrive il giudice Caputo, all'utente non può essere addebitato ex legge n. 40/2007, alcun costo per attività di cessazione del servizio.

Tale disciplina, all'art. 1, comma 3, prevede che "I contratti per adesione stipulati con operatori di telefonia e di reti televisive e di comunicazione elettronica, indipendentemente dalla tecnologia utilizzata, devono prevedere la facoltà del contraente di recedere dal contratto

o di trasferire le utenze presso altro operatore senza vincoli temporali o ritardi non giustificati e senza spese non giustificati da costi dell'operatore e non possono imporre un obbligo di preavviso superiore a trenta giorni".

La disposizione "introdotta nell'ambito di una più ampia riforma della disciplina delle tariffe dei servizi, a tutela della concorrenza e della trasparenza delle tariffe medesime e ad "assicurare ai consumatori finali un adeguato livello di conoscenza sugli effettivi prezzi del servizio - osserva il giudice - rende, quindi, illegittime le disposizioni contrattuali che, contrariamente a quanto previsto da essa, prevedano l'addebito di costi a carico dell'utente in caso di recesso dal contratto".

Né può accogliersi la tesi della compagnia telefonica secondo la quale l'importo preteso nei confronti dell'utente non costituisce un corrispettivo del recesso, ma un vero e proprio costo che la compagnia telefonica è tenuta a sostenere per la disattivazione della linea in conseguenza del fatto che le reti di telefonia fissa sono di proprietà della Telecom. Costi che, sarebbero "determinati in misura forfettaria, non essendo possibile dimostrarli specificamente con riferimento ai singoli utenti".

Far pagare i costi di disattivazione significherebbe far pagare il recesso

Si tratta di una prospettazione non condivisibile. L'introduzione di una disciplina specifica, dalla chiara formulazione, "che vieta l'addebito all'utente di corrispettivi per il recesso - peraltro nella evidente prospettiva di favorire il passaggio da un operatore telefonico all'altro assicurando così l'effettiva realizzazione della concorrenza tra imprese con ricadute benefiche per i consumatori - e che al contempo fa salvi eventuali 'costi' che devono essere sostenuti dall'operatore va necessariamente interpretata nel senso che, qualora l'operatore addebiti dei costi all'utente, debba anche fornire in concreto la prova specifica di questi ultimi" spiega il giudice.

A ragionare diversamente, ammettendo la previsione di costi forfettizzati, "si arriverebbe - invece - al risultato paradossale di continuare a prevedere l'applicazione di un corrispettivo standardizzato per il recesso dal contratto, semplicemente chiamandolo con un nome diverso, in netto contrasto con la lettera e con la ratio della disciplina n. 40/07".

Per cui, se la compagnia intende addebitare all'utente i costi sostenuti per il recesso, "deve dare necessariamente la prova di questi ultimi", mentre nel caso di specie, nessuna prova era stata fornita in ordine alle spese concretamente sostenute.

Nè tantomeno, vale a rendere legittima la previsione del costo forfettizzato, conclude il tribunale, "il fatto che di esso sia stato dato anche pubblicità da AGCOM che ne ha, quindi, sostanzialmente avallato l'applicazione. Si tratta, infatti, di un profilo che attiene al diverso piano dei rapporti con le Autorità Garanti e che non può precludere l'indagine in sede civile sulla legittimità o meno della pretesa di richiedere un determinato importo a titolo di spesa sostenuta senza che, poi, si dia effettivamente prova di averla concretamente sopportata".

Pertanto, l'addebito è illegittimo. L'appello va rigettato e la Wind condannata a restituire i soldi all'utente oltre a pgare le spese processuali.

Tribunale S. Maria Capua Vetere, sentenza del 10 marzo 2018

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