Per la Cassazione non può essere scriminata la diffamazione del boss mafioso con espressioni che lo "disumanizzano" poiché prevarrebbe comunque il rispetto della sua dignità

di Lucia Izzo - "La mafia è una montagna di merda": sono queste le parole usate, senza mezzi termini, da Peppino Impastato, giornalista simbolo della lotta alle organizzazioni criminali.


Espressione che, tuttavia, "muta di significato quando si concentra sul singolo appartenente all'associazione", anche laddove si tratti di un boss mafioso pluriomicida, ed è idonea a integrare il reato di diffamazione, poiché viola "il nucleo fondamentale della dignità che il nostro ordinamento riconosce a qualunque essere umano, anche a chi appartiene a un'associazione malavitosa sanguinaria e nefasta o addirittura la capeggia".


Così la Corte di Cassazione, quinta sezione penale, ha motivato nella sentenza n. 50187/2017 (qui sotto allegata), un provvedimento definito da molti "sconcertante".


La vicenda

Gli Ermellini hanno annullato il provvedimento che aveva pienamente assolto, dal reato di cui all'art. 595 c.p., il giornalista/blogger che aveva scritto, dopo il decesso di un boss di Cosa Nostra (capo mandamento di Mazara, condannato per plurimi omicidi, tra cui la strage di Capaci), che la sua morte aveva tolto alla Sicilia "un gran bel pezzo di merda".


Per tali espressioni, il giornalista era stato querelato per diffamazione dai figli e dalla vedova del boss, ma ne era seguita una sua piena assoluzione: per il giudice di merito, l'espressione rientrava nel diritto di critica e doveva confrontarsi con il sistema pseudo-valoriale proposto dall'associazione di cui era parte il blogger.


In tale cornice di riferimento, aveva concluso il Tribunale, la frase rappresentava "uno strumento retorico in grado di provocare nel lettore un senso di straniamento che lo interroga sulla validità delle prospettive tradizionali, e ciò allo scopo di sollecitarlo ad una nuova consapevolezza sulla necessità di sradicare ogni ambiguità nella scelta tra contrapposti (seppure artatamente confondibili) sistemi valoriali".


La vicenda giunge innanzi ai giudici del Palazzaccio a seguito dell'impugnazione immediata promossa dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trapani, che lamenta erronea applicazione della legge penale.

Cassazione: nessuno, neppure un criminale mafioso, può essere paragonato a escremento

Gli Ermellini ribaltano completamente la decisione di prime cure, facendo perno proprio sul diritto di critica ritenuto scriminante: la Corte rammenta che tale diritto "si concretizza in un giudizio valutativo che postula l'esistenza del fatto assunto a oggetto o spunto del discorso critico e una forma espositiva non ingiustificatamente sovrabbondante rispetto al concetto da esprimere, e, conseguentemente esclude la punibilità di coloriture e iperboli, toni aspri o polemici, linguaggio figurato o gergale, purché tali modalità espressive siano proporzionate e funzionali all'opinione o alla protesta in considerazione degli interessi e dei valori che si ritengono compromessi".


Le espressioni che "disumanizzano" la vittima, assimilandola a cose, animali o concetti ritenuti ripugnanti, osceni, disgustosi, quale appunto un escremento, prosegue la sentenza, sono da considerarsi "obiettivamente lesive dell'onore".


In sostanza, sostiene il Collegio, la finalità generale perseguita dall'autore del commento, ossia quella di aggredire l'ambiguità del sistema di controvalori mafioso, "non risulta idonea a giustificare la lesione di un valore fondamentale della persona" nonchè, come gli Ermellini ritengono "doveroso aggiungere", di qualunque persona.


Anche, si afferma, del "riconosciuto autore di delitti efferati", poiché proprio il rispetto di tali diritti varrebbe a qualificare la superiorità del'ordinamento statale, fondato sulla centralità della protezione dell'individuo rispetto a organizzazioni criminali che invece si nutrono del sostanziale disprezzo di chi non risponda alle proprie finalità.


Il fondamento costituzionale del nostro sistema penale, conclude la Cassazione, "postula la rieducabilità anche del peggior criminale (art. 27, comma terzo, Cost.) e, pertanto, non può tollerare, neanche come artifizio retorico, la sua reificazione".

Cass., V sez. pen., sent. n. 50187/2017

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